Bandiera inglese Bandiera italiana

Capitolo 2 - Paolo Levis

A che serve la regola? Ad essere infranta


Questura di Como
Verbale nr. 42 del 12 giugno 1995

Oggetto: arresto e detenzione di Giuliano Franzon lungo il confine italo-svizzero.

In data odierna, alle ore 11:45 circa, una squadra di Polizia incaricata di intercettare un corriere di sostanze stupefacenti tra Lugano e Como interveniva presso il confine italo-svizzero fermando tale Giuliano Franzon, colto in atteggiamento sospetto. Dopo lo stato di fermo cautelare è stata effettuata la perquisizione del bagaglio del soggetto. La perquisizione ha evidenziato chilogrammi cinque di marijuana, confezionata in sacchetti da grammi dieci cadauno. Il Franzon risultava inoltre in possesso di un'arma bianca non autorizzata, un coltello d'argento finemente lavorato lungo dodici centimetri, e di alcuni documenti contraffatti. Il Franzon è stato immediatamente trasferito nella sezione circondariale di Como con l'accusa di spaccio, contrabbando, porto d'armi abusivo e ricettazione.
Dopo l'interrogatorio si è evidenziato che il Franzon risultava domiciliato in provincia di Venezia, località Ca' Bianca, in via Roma n. 12. E' stato immediatamente emesso un mandato di perquisizione per l'abitazione suddetta. La perquisizione ha rivelato:

- Ventidue grammi di hashish nell'appartamento (con percentuale attiva di THC pari all'otto per cento) requisiti e trasferiti presso la Questura di Como.
- Una spada di ferro non denunciata, requisita e trasferita presso la Questura di Como.
- Materiale pornografico di vario tipo, per lo più fotografico, requisito e trasferito presso la Questura di Como.
- Centotrenta litri di bevande alcoliche illegali, di cui quaranta litri di "Fragolino" autoprodotto e novanta litri di "Clinton" autoprodotto. Materiale requisito e trasferito presso la Questura di Como.
- Un documento intitolato "La Grande Truffa", appallotolato nel cestino della camera da letto, dove venivano descritte le modalità con cui effettuare il contrabbando di marijuana. Il documento risulta firmato da tale "Paolo Levis". Documento requisito e trasferito presso la Questura di Como.

Risultano come precedenti del soggetto: furto con destrezza, atti osceni in luogo pubblico, propaganda politica non autorizzata, utilizzo non autorizzato di suolo pubblico, manifestazione non autorizzata, affissione non autorizzata recidiva, furto con scasso, associazione a delinquere, oltraggio a pubblico ufficiale, aggressione a pubblico ufficiale, abuso sessuale di pubblico ufficiale.
Di particolare importanza è risultato il documento "La Grande Truffa" nel quale erano contenute le direttive precise sul modus operandi da seguire durante il contrabbando. Ulteriori indagini hanno evidenziato che il Levis, presunto autore del documento, è ricercato da anni con l'accusa di terrorismo, strage e attentato alle istituzioni. Il documento è stato rinvenuto accartocciato assieme ad una busta indirizzata al Franzon, il cui indirizzo risultava scritto da calligrafia simile alla firma posta in calce al documento suddetto. La perizia calligrafica ha confermato la tesi secondo la quale l'indirizzo sulla busta è stato scritto dalla stessa persona che ha firmato il documento, in prima ipotesi il Levis stesso.
Considerato che la busta conteneva l'indirizzo del mittente, corrispondente a Via Pinton, n. 1, Piove di Sacco (PD), senza precisazione dell'intestazione, si presume che tale indirizzo corrisponda a quello del ricercato Paolo Levis. Si fa quindi richiesta dell'autorizzazione a porre sotto sorveglianza l'ipotetico domicilio del Levis, allo scopo di identificare il soggetto e confrontarlo quanto prima con gli identikit allegati al fascicolo del presunto terrorista. Si avanza inoltre richiesta al pronto intervento, con mandato di perquisizione e di intrusione, nel caso che il soggetto domiciliato presso tale indirizzo corrisponda alla descrizione di Paolo Levis.
Considerata infine la pericolosità potenziale del soggetto si fa richiesta di autorizzazione all'intervento armato, all'uso di gas lacrimogeni e all'eventuale evacuazione delle abitazioni limitrofe.

Ispettore sezione Narcotici
C. Meleri


Swissshhh.
Consuma. Produci. Crepa.
Via lo stampo di legno (strumento indispensabile almeno quanto un buon paio di anfibi), occultamento della bomboletta spray con gesto plastico e occhiata discreta nei paraggi. Nessuno in vista, avanti col prossimo porticato. Una decina di metri tranquilli, mani in tasca, cappuccio della felpa avvolto attorno al viso stanco inchiodato sul terreno.
Paolo aveva ventisei anni, ma tutti gliene davano di più. Forse era colpa delle cicatrici: quella piccola sulla fronte (varicella), quella discreta sotto l'occhio sinistro (unghiata da amplesso) e quella decisamente più vistosa sul mento (coltellata). Anche le rughe incipienti contribuivano ad invecchiarlo, assieme allo sguardo da lupo solitario della steppa. Perché su questo non c'erano dubbi: era un lupo fuggito dal branco, un predatore silenzioso che si cibava di rifiuti urbani di qualunque tipo. Aggrediva i tossici come i borghesi, senza fare preferenze. I portafogli gonfi non vanno mai giudicati dall'apparenza dell'ex-proprietario, il sistema va colpito da tutti i lati, da davanti e da dietro, da destra e da sinistra, senza tregua, senza pietà. Sistema uguale nemico.
Porticato vergine in vista, fuori lo stampo, fuori la bomboletta, pronti, via.
Swissshhh.
Consuma. Produci. Crepa.
Stavolta ci stava anche una bella A cerchiata, simbolo centenario dell'unica rivoluzione degna di questo nome: morte al sistema, lunga vita all'anarchia. Intanto di nuovo via lo stampo, via la bomboletta e mani in tasca.
C'era pure il tempo di una sigaretta.
L'effetto sedativo del tabacco impose una pausa. Paolo poteva sentire la nicotina attraversare gli alveoli, correre su per i capillari, infilarsi nelle arterie e scoreggiare silenziosa sincrona al battito cardiaco. Tump (crack). Tump (crack). Tutto perdeva significato, le idee si annacquavano morbide nell'ovatta calda del fumo, smacchiandosi e stingendosi nel grigio dipinto di grigio.
A che serviva? Perché non riusciva a smettere, a darci un taglio? Non alle sigarette ma alla missione anarchica, al volantinaggio in piazza, agli striscioni e alle scritte sui muri. Il suo amico Amedeo avrebbe detto qualcosa come cui prodest, ma Paolo aveva solo la licenza media e ci aveva messo un po' a farsi tradurre il messaggio.
Cazzo serve?
Il movimento anarchico era fatto per gli anarchici, inutile galvanizzare i giovani studentelli figli di papà con la morfina ideologica della rivoluzione, li faceva sentire alternativi fino al matrimonio, poi basta. Una bella casetta, uno stipendio sicuro, abiti puliti e stirati e una frase registrata pronta a scattare: "Da giovane la pensavo come te ma...". Quanti se ne erano salvati della sua generazione? A parte lui, s'intende. Due? Tre? Se però non contava quelli finiti in ghebba, quelli che facevano la fila per il metadone e quelli che dormivano in strada... quanti? Solamente lui, si era salvato solamente lui.
Scrollò la cenere avvicinando il volto smagrito all'ultimo slogan. La vernice era fresca, odorava di libertà e trasgressione, ecco perché gli sbarbatelli si divertivano tanto a quel gioco. E' bello sentirsi gli eroi contro corrente, i guerrieri della notte, sputare in faccia al primo disgraziato in giacca e cravatta e pisciare contro le macchine. Facile essere punk fuori, quasi impossibile essere punk dentro. Un'ombra di depressione si impossessò di Paolo, il demone della delusione lanciò una scossa elettrica attraverso il suo braccio e fulminò il pollice stanco. Un colpo secco sulla parola "Crepa" la trasformò in un acquerello impressionista. La C divenne un albero, la R una duna di sabbia ondulata, la E un'oasi nel deserto. Il resto venne spazzato via dal Vento del Polpastrello Gigante.
Strinse il cappuccio attorno al collo con la mano sinistra per non mollare la sigaretta. Faceva caldo, dopotutto era una notte di inizio estate, ma lui aveva sempre freddo quando lavorava. Perché quello era un lavoro, una missione, non la pagliacciata di un ribelle senza storia (m'han fregato la memoria, cantavano gli Skiantos). Lui era diverso, andava contro corrente perché ce l'aveva nel sangue, altro che rivoluzione! Qualcuno, Paolo non ricordava quasi mai gli autori delle citazioni, aveva sintetizzato l'essenza della Vera Anarchia in quattro frasi.
A che serve la regola? Ad essere infranta.
E quand'è che puoi infrangerla? Quando ce l'hai dentro.
Anarchia pura, di altissimo livello, senza politica e senza ribellione. Niente più vandalismo per sfogare la frustrazioni, niente più trasgressione per sentirsi speciali, basta con le vetrine infrante per scoparsi la più porca del reame. Un vero anarchico, come amava definirsi Paolo, vuole abolire la legge perché sa già autoregolarsi. Una volta eliminati Polizia, tribunali e avvocati lui avrebbe smesso di rubare. Avrebbe smesso di piazzare bombe. Avrebbe appeso le catene al chiodo, si sarebbe trovato un lavoro onesto e messo su famiglia. Da uomo libero.
Ma quello era un sogno e la sigaretta era finita, si tornava al lavoro. Lanciò il mozzicone contro un motorino parcheggiato che dispettoso non prese fuoco.
La regola era dentro, non fuori.
Swissshhh.

La moto l'aveva presa usata, annuncio folgorante sul giornale locale. Se n'era innamorato ancor prima di vederla: "dieci anni, quasi nuova". Come resistere ad un invito simile? Una moto teletrasportata direttamente dal passato, invecchiata nella cantina-garage di qualche sfigato, più appetibile di un Brunello di Montalcino o di una Birre du Demòn d'annata. Come dicevano i paninari della sua generazione, una gallata.
Che tempi gli anni ottanta, pensò mentre il motore squarciava la notte. Paolo era soltanto un ragazzino, all'epoca, ma i ricordi erano affreschi indelebili spalmati nell'anticamera del cervello. Gli amici più grandi si fumavano i cannoni, i più piccoli giocavano a calcio da mattina a sera. Lui stava in mezzo, come un vulcano assopito che prendeva la mira, indeciso tra lo stordimento alla Jim Morrison e l'oblio del patronato. Droga illegale o catechismo per rimorchiare? Ma lui non ce l'aveva fatta a scegliere, era rimasto a guardare con la bava alla bocca, così alla fine avevano tutti il motorino o la ragazza, tranne lui.
Masturbation saved my life - era il ritornello di una canzone punk?
Infilò la statale in direzione Venezia, unica indicazione di casa per i prossimi duecento chilometri. Il rombo del motore urlava dietro di lui, una scia d'aria afosa nella notte scura. Impronte eteree dell'ossessione del passato, rumoroso e puzzolente.
Tutto era iniziato all'epoca.

La devozione di Paolo per l'anarchia risaliva ai primissimi anni ottanta. All'epoca stava uscendo dall'adolescenza, era un verginello pieno di brufoli che aveva appena perso un anno di scuola. Un'estate rovinata per gli esami di ripetizione gli era bastata, mai più si era detto, adesso miro alla sufficienza e non mi faccio fregare. Tanti saluti al paese dei balocchi, occhi fissi sull'abbecedario e guai a chi mi distrae.
Ma c'era bisogno di una valvola di sfogo, d'aria pulita e calli sulla pelle. A tredici anni gli ormoni e l'adrenalina ti girano nel sangue, nel cervello e davanti gli occhi, o ti costruisci una diga oppure diventi un delinquente. Lui era della scuola della diga, che nella fattispecie era una casetta di legno, veramente bella: cellophane nell'intercapedine del tetto, panca e tavolo all'interno, finestra e porta con lucchetto. Autogestita e auto costruita, rubando chiodi ed assi di legno dal cantiere oltre la recinzione, come se i muratori non sapessero. Di giorno gli operai spalmavano il cemento, la sera Paolo organizzava dei raid nel piccolo luna park privato. Il bottino era sempre ricco e ogni volta diverso: martelli, pinze, chiodi, vernice e legname. La casetta veniva su arrogante come un porcino lungo il sentiero, sotto gli occhi di tutti, ma quando sei ragazzino ti illudi di essere più furbo di chiunque. La banda del quartiere ne aveva fatto il punto di riferimento, tra le quattro pareti nascevano coppiette, si toccavano le prime tette, si giocava a carte e si smerciavano i sogni dell'età adulta. C'era persino una quota associativa, cinquecento lire al mese, devoluta per comprare la pittura (rubata) e i pennelli (pure). La quota di iscrizione al "club casetta" veniva trasformata in sigarette e birra, ma questo lo sapevano solo i più grandi: i piccini vedevano la vernice nuova di pacca e facevano "oooh".
Sicuramente non era un'attività degna di essere lodata durante l'omelia della domenica, ma tutto sommato era meglio dell'alternativa in voga all'epoca: overdose di alcol in discoteca e morte sull'asfalto. Paolo gestiva la pseudo-associazione, organizzava gare in bicicletta e battaglie coi fucili di legno: un'asse, un chiodo come grilletto, una cintura rotta per tracolla.
Il cardine dell'alchimia è la pietra filosofale: forse, se avesse avuto la passione delle bocce oppure del calcio, le cose sarebbero andate diversamente. Forse.
Perché loro giocavano alla guerra, tutti i pomeriggi, finiti i compiti per casa. Si davano pure i gradi, organizzavano squadre e plotoni, s'immaginavano marines appena sbarcati in Normandia.
Poi l'apocalisse si compì davanti ai suoi occhi.
Gli anni di piombo erano finiti e l'assalto a Castel Decima era solo un ricordo, ma lo spettro del terrorismo si divertiva ad infestare lo Stato Maggiore. C'era paura nell'aria, Paolo non lo sentiva perché protetto dall'innocenza dei suoi tredici anni, ma gli adulti non godevano di quell'immunità, erano spaventati ed indifesi. Molto spaventati, tanto da vedere minacce ovunque, anche in una casetta costruita lungo la recinzione della base militare limitrofa. Troppo facile salire sul tetto, scavalcare il confine e piazzare una bomba. Il giocattolo di quei bambini era un pericolo, una spina nel fianco, una porta aperta al terrorismo.
Parole dannatamente profetiche.
I militari fecero a pezzi la costruzione in un paio d'ore, il sette giugno del 1984. Paolo rimase impotente in terrazzo, pugni stretti dentro il cuore, sguardo fisso sulle tute mimetiche, stordito dal ritmo infernale dei colpi di piccone. Sulla labbra una sola parola: vendetta.
Una porta aperta al terrorismo: un modo come l'altro per cominciare.

Tic. Tic. Tic. La freccia della moto lampeggiava a sinistra, il semaforo lo guardava con un gigantesco occhio verde mentre la strada aspettava con pazienza. Era arrivato a casa in modalità pilota automatico, non ricordava neppure che giro aveva fatto. Ormai mancavano duecento metri: una curva e il porticato dove si facevano i tossici del quartiere. Poi c'era la sua tana.
Si lanciò in derapata accelerando basso, conosceva bene il percorso e aveva imparato a spegnere il motore appena lasciato il semaforo. Era bello sfruttare l'inerzia fino in fondo, arrivare avvolti dal silenzio irreale della notte, discreti come un guanto bianco unto di vaselina. Col vantaggio di non farsi notare dai vicini, evitare le lamentale condominiali e i giudizi scontati della ricca borghesia contadina.
Quella sera scoprì che la tecnica offriva anche altri vantaggi. C'erano due vigili che piazzavano multe proprio davanti casa sua, appiccicando estorsioni legalizzate sui parabrezza delle vittime addormentate. Fu un bene vedere prima loro e poi il lampeggiante blu dell'auto di servizio, altrimenti la paranoia avrebbe preso il sopravvento. Paolo odiava quel rituale blasfemo, era un oltraggio alla coerenza, la dimostrazione lampante della fallacità del sistema. Un operaio va a lavorare in fabbrica, non va a divertirsi, eppure non può parcheggiare in divieto di sosta, deve lasciare la macchina dov'è permesso e farsi una bella camminata. Idem il panettiere, il giornalaio e il pizzaiolo. Ma per qualche astruso motivo il lavoro dei vigili urbani era diverso. Loro abbandonano la quattroruote blu dove capita, magari in seconda fila, scendono con calma e iniziano a punire tutti gli altri. Cazzo, avrebbe senso se stessero spegnendo un incendio, fermando un ladro, sventando una rapina o soccorrendo un ferito. Invece stanno solamente lavorando, piazzano foglietti gialli sotto i tergicristalli: per quale ragione non dovrebbero parcheggiare come gli altri? Cos'è, non sanno fare retromarcia? Non sono pagati per camminare? Oppure lo fanno per noi cittadini, per non consumare le suole delle scarpe che l'amministrazione pubblica dovrebbe reintegrare. A ?sto punto diamogli pure un'indennità per il rischio di attraversamento sulle strisce pedonali.
All'improvviso una visione eruppe violenta dall'oceano di rancore mentale. C'era un tossico addormentato sul marciapiede, davanti al portone del suo condominio, assieme a due amici menefreghisti che si facevano mentre l'altro dormiva. O moriva, che era circa lo stesso. Due vigili e tre tossici, totale cinque persone. Un brutto numero a quell'ora della notte in un paesino di campagna.
Lasciò sfrecciare la moto come una macchia nera attraverso quel teatrino tirato a lucido. Nello specchietto trovò la conferma che cercava. Il tossico col cucchiaio lanciò un'occhiata dentro la giacca jeans, come a cercare qualcosa. Invece non stava cercando un bel niente. Paolo ci avrebbe scommesso gli attributi che quello aveva controllato una targa. La sua targa.

C'è una storiella molto azzeccata sulla gestione della paranoia. Non è grave prendere a calci un gatto perché credi ti stia pedinando, non devi andare dallo psichiatra se pensi che qualcuno ha inserito una microtelecamera nell'occhio dell'anatra che ti nuota davanti. Sono dubbi da esorcizzare con una risata in compagnia e una pacca sulle spalle. L'unica cosa davvero importante è evitare di trovarsi in cella a ripetere per vent'anni - Perché non sono stato abbastanza paranoico? Perché non mi sono fidato dell'istinto?
Era mezzanotte passata e Paolo decise di concedere spazio alla prudenza. Il garage d'emergenza stava sul retro di un condominio in fondo alla via, una buca depressa sotto il livello della strada, circondata da un muretto di cemento. Ci si poteva entrare da buoni cristiani, aprendo il cancello principale, oppure in versione ninja povero, scavalcando la recinzione poco illuminata dell'edificio confinante.
Buona la seconda. Parcheggiò la moto in strada e saltò la recinzione mirando alle primule assopite. Gli anfibi fanno rumore quando picchiano sul duro e lui non voleva attirare l'attenzione. Se giri con un trench in pelle che spazza il terreno, pantaloni in pelle nera e capelli rasati sui lati è meglio se non ti fai notare. Specialmente quando entri in una proprietà privata a quel modo, metà batman e metà demonio.
Arrampicarsi sulla rete metallica fu più comodo, tanto il lampione era rotto da anni, l'unico fastidio fu il salto di due metri nel vuoto. Pregò di non trovare nulla di sotto e si lasciò risucchiare dalla gravità. Il trench si impennò come un ombrello nel vento per un istante, l'attimo dopo lui era davanti al garage che tirava un respiro di sollievo: ormai era fatta.
Dentro si mosse come un gatto, senza accendere la luce. Un paio di cilindri luccicanti nelle maniche, munizioni nelle tasche, SC-70 incastrato sotto l'ascella. Era un fucile ingombrante, ma pesava poco e sparava anche a raffica. Il regalo di un maresciallo col vizietto delle minorenni in calore. Inserì un colpo in canna e controllò la sicura: non voleva sparare al primo tossico che starnutiva per motivi preventivi, meglio andarci piano.
Chiuse la saracinesca dietro di sé e alzò lo sguardo al cielo. Nella pianura padana era più facile trovare una puttana in pieno giorno che una stella di notte. Sopra di lui c'era un tendone nero candeggiato senz'amore, scolorito e macchiato di giallo pallido, figlio dell'umidità e dell'inquinamento luminoso. Pazzesco, era talmente imperfetto da sembrare vero. Invece era finto, finto come tutto il resto: il denaro, la legge e quei burattini davanti casa sua.
Era passato abbastanza tempo? Meglio farli aspettare ancora un po', voleva vedere come reagivano e cosa si sarebbero inventati ?sta volta. Una battaglia è un'ottima occasione per conoscere il tuo nemico, se non hai fretta di combattere.
Dopotutto poteva essere l'ultima sigaretta della sua vita.

Sul palcoscenico c'era uno spettacolo nuovo di zecca. I vigili urbani avevano finito il turno notturno e probabilmente a quest'ora stavano parcheggiando un'altra volta in divieto di sosta, stavolta sotto casa loro. I tossici erano scomparsi tutti tranne quello in coma, ancora steso per terra con gli occhi impallati che uscivano dalle orbite. Il lampeggiante blu adesso era quello di un'ambulanza venuta in soccorso del moribondo.
I conti tornavano perfettamente: un'autista della croce verde, due infermieri volontari e un medico da prima linea. Le solite cinque persone, contando il tossico sul selciato.
Un bel numerello tondo tondo di pulotti pronti ad incularlo, per non parlare di quelli nascosti nei paraggi. Era arrivato il momento della verità: coincidenza o retata? Nel primo caso non c'erano problemi, nel secondo bisognava agire da professionisti, ovvero fingere di non aver capito un bel nulla.
Paolo puntò dritto verso il portone e tirò fuori la chiave con la mano sinistra. La destra restò in tasca per tener su il fucile, offuscato tra le pieghe ampie del trench, col calcio contro l'ascella. Infilò la chiave nella toppa tenendo d'occhio la vetrata unta di grasso davanti a lui. Il riflesso era frammentato come il puzzle di un bambino svogliato, ma chiaro abbastanza da riconoscere forme e movimenti. Un infermiere aveva già fatto un passo di troppo, arrivando a mezzo metro dalla sua schiena. Teneva in mano qualcosa di scuro, Paolo preferì non aspettare di capire se fosse un medicinale, una garza sporca di sangue o una pistola. Meglio colpire per primi.
Il suo polso scivolò attorno al calcio dell' SC-70, mentre il busto ruotava verso destra, facendo uscire dal trench la canna del fucile mitragliatore, più veloce della coda di un scorpione. Nel frattempo l'altra mano, che aveva appena finito di infilare la chiave, si appoggiò al muro per fare leva. Voleva solo guadagnare tempo, senza uccidere nessuno. Sicuramente quel tizio avrebbe avuto qualche problema con la sua virilità, ma sarebbe sopravvissuto. L'acciaio freddo del fucile saettò tra le gambe dell'infermiere in perfetto silenzio, sollevandolo da terra e scaraventandolo all'indietro. Rimasero tutti di stucco almeno mezzo secondo, un tempo sufficientemente lungo per far uscire la bomboletta del fumogeno dalla manica sinistra e lanciarla verso le espressioni attonite degli spettatori.
L'ultima immagine che Paolo vide gli strappò un sorriso feroce dalle labbra. Le nuvole di fumo denso facevano da cornicetta a quattro volti sorpresi, compreso quello del moribondo. Un moribondo che non aveva più gli occhi spiritati e nemmeno la faccia del tossico stravolto, ma teneva tra le mani la pistola d'ordinanza e stava prendendo la mira. A volte un gerundio può fare la differenza tra la vita e la morte.

Primo: accendere il computer.
Secondo: controllare le scale.
Paolo si accasciò dietro il corrimano, fucile ben appoggiato sulla spalla, occhio nel mirino. Spirali di nebbia salivano dal portone. Silenzio, nient'altro che silenzio.
Terzo: ungere l'entrata.
Corse in cucina con le orecchie tese, pronte ad urlare al minimo rumore, arraffò un paio di bottiglie d'olio d'oliva e tornò in ingresso. Dopo una rapida occhiata verso il portone scagliò con forza le bottiglie sui gradini più vicini. Ancora silenzio. Il fumogeno aveva funzionato bene, tanto valeva insistere. Si concesse una visita lampo nel ripostiglio e prese una bracciata di detersivi. Giù per le scale anche quelli. Gli stava andando di lusso, aveva addirittura il tempo di lavorare di fino. Dietro di lui il computer macinava. Almeno un altro minuto prima della fine dell'avvio.
Quarto: chiudere la porta.
Chiave, chiavistello, spranga ed armadio. Poi anche divano e scrivania. Dodici secondi. Il computer stava ancora svegliandosi. Lente 'ste macchine, troppo lente.
Quinto: sprangare le finestre.
Lavorò basso, ginocchioni al pavimento. Non c'erano sicuramente cecchini, non ancora, ma suonare fuori tempo in questa orchestra significava morire.
Sesto: cancellare tutto.
La macchinetta infernale stava finendo di prendere coscienza. Paolo stimò una manciata di secondi prima dell'avvio completo. Uno. Rumori di passi sulle scale, un tonfo, un'imprecazione.
Due. Urlo di sirene in lontananza, oltre i vetri, dietro i condomìni lontani. Tre. Uno strofinio leggero, un tocco da professionisti, ma l'aveva sentito: avevano palpeggiato la porta. Quattro. Uno strano silenzio, la quiete prima della tempesta - Adesso entrano - pensò. Cinque. Strinse le mani attorno al fucile, dito sul grilletto, mirando all'ingresso. Riavvio completato!
Dubitò un attimo, poi prese coraggio e spostò l'indice destro sulla tastiera:

FORMAT C:

- Arrenditi! La casa è circondata. Esci con le mani bene in vista o saremo costretti a fare irruzione.
Quanto ci avevano messo? Tre minuti? Quattro? Dopotutto dovevano solo tirare fuori un megafono. Paolo guardò il monitor ed imprecò. Cazzo, quella non era l'istruzione giusta. Si asciugò la fronte matida di sudore, cancellò il comando e riscrisse:

DEL *.*

Settimo: prendere i documenti.
Corse in camera, proprio mentre i primi colpi di accetta sfondavano la porta. L'armadio resisteva stoico, barcollando appena. Aveva ancora parecchio tempo.
Riempì una borsa con le carte e la mise nello zaino, pronto da mesi. Un'occhiata attorno: i soldi, la pistola, un po' di munizioni. Non serviva altro al momento.
Ottavo: molotov chimica di benvenuto.
Tirò fuori la vaschetta carica di verderame, anche quella in attesa da tempo, e la sistemò sotto l'ultima scrivania che barricava l'entrata. Al secondo giro dovette gettarsi a terra. Le brecce nella porta erano già grandi, qualcuno riuscì a vederlo e lanciò un grandinata di piombo a mezz'aria. Paolo atterrò sul pavimento lungo disteso, la bottiglia di benzina tra le mani. Ben chiusa, per fortuna. Senza alzarsi dal pavimento tolse il tappo e appoggiò il contenitore sulla scrivania. Poi attese la fine della mitragliata.
Nono: sparire.
Arrivò gattoni fino alla camera, raccolse zaino, fucile, ed iniziò ad arrampicarsi. Sedia, tavolo, armadio. Bella dritta una botola sul soffitto. Aveva costruito l'intero piano di fuga sulla presenza di quella via di uscita. Cinque secondi dopo era già nella soffitta del condominio, dove una corda lunga una dozzina di metri lo aspettava da mesi.
Dieci secondi più tardi stava respirando aria fresca sul tetto.
Altri tre secondi e sotto di lui scoppiò l'inferno.
Mai entrare nella tana del lupo.

Una volta Amedeo gli aveva raccontato la storia di Magnus. Magnus era un direttore d'orchestra apprezzato in tutto il mondo, uno di quelli che compare in prima pagina sulle riviste patinate e firma autografi mentre gira la pubblicità per qualche marca di tonno in scatola. All'inizio dirigeva solo musica classica, poi la sua vita fu travolta da un ciclone asiatico. Magnus s'interessò ad alcune opere cinesi, le studiò nella forma e nel contenuto e se n'innamorò. Diresse un paio di concerti innovativi con grande maestria, ricevendo l'ovazione del pubblico e il plauso della critica. Poi appese la bacchetta al chiodo e si ritirò dalle scene.
Amedeo diceva di averlo conosciuto durante un convegno sul buddismo, pochi anni prima, e si era fatto raccontare la storia completa. Magnus era entrato in crisi mistica, aveva aperto l'armadio della coscienza sepolta e gli scheletri erano caduti fuori a frotte, travolgendolo. Amedeo ricordava il discorso completo, ogni parola che l'ex-direttore d'orchestra gli aveva confessato.
- E' vero, ero famoso, ben pagato e dirigevo le orchestre migliori. Ma non facevo musica. Un violinista, per quanto incapace, produce comunque qualcosa: suono, rumore, incanto. Invece io ero un avvoltoio, una sanguisuga che si nutriva del talento altrui. Non sarei mai stato capace di intrattenere i nipotini con uno strumento, non sapevo suonare nemmeno una serenata. Mentre lavoravo alla traduzione di un testo cinese compresi la verità: io ero inutile.
Paolo era arrivato al casolare abbandonato. Lasciò cadere lo zaino sull'erba fradicia d'umidità e riprese il fiato. Gliene serviva almeno un po' per accendersi una sigaretta.
Quel giorno non aveva capito nulla, faceva sempre fatica a seguire i discorsi di Amedeo, specialmente quando c'era qualcosa di profondo da afferrare. Quindi aveva chiesto spiegazioni.
- Qual è la morale? - Amedeo l'aveva guardato con indifferenza, come se avesse previsto ogni domanda, ogni virgola di quel dialogo surreale.
- Il direttore d'orchestra è come un dirigente aziendale: completamente inutile. Non fa nulla: non suona la grancassa, non spedisce i fax, non accorda gli strumenti, non batte a macchina. Inutile, come una statuina sul caminetto, un cocchiere ubriaco su una carrozza tirata da cavalli addestrati, un generale dietro la collina.
Paolo aveva ribattuto dopo un paio di minuti, a fuoco lento, con i suoi tempi.
- Non sono d'accordo. Il capo di una squadra è la mente, gli altri sono il braccio. Un corpo senza mente è come un manichino senza vita. Non può agire, non può far nulla.
Allora Amedeo si era avvicinato e lo aveva fissato attraverso gli occhiali.
- Bellissimo concetto, mio caro, ma alquanto impreciso. Le cose vanno avanti comunque, senza un direttore dei lavori, magari male, molto male, ma vanno avanti. Se invece togli il braccio, cosa rimane? Seghe mentali, nient'altro che seghe mentali.
Quel giorno Paolo aveva capito. Se lui aveva scelto di non essere a capo del gruppo c'era un motivo. Il leader era la pedina più inutile, l'elemento sacrificabile, colui che serviva solamente a fare da facciata. Per mettere in atto il piano c'era bisogno di qualcuno in prima linea, persone pronte a premere il grilletto e lanciare una granata con abbastanza precisione.
Paolo Levis era il braccio, ed era orgoglioso di esserlo.
Tirò una boccata di nicotina e raccolse lo zaino. Aveva scelto il casolare soltanto pochi mesi prima, non poteva prevedere con troppo anticipo dove spostare la tana, comunque il tempo era stato sufficiente. In quei mesi aveva accatastato quasi un quintale di cibo in scatola, senza contare le lattine di birra e le stecche di sigarette. Poteva restare lì per settimane senza che nessuno venisse a cercarlo.
Certo, gli dispiaceva per la motocicletta. Aveva pensato di passare a controllare la situazione, durante la fuga sui tetti, ma un professionista si riconosce dai dettagli. Magari la moto era ancora lì, forse nessuno l'aveva seguito nel tragitto verso il garage d'emergenza, ma togliersi questo dubbio poteva costargli troppo. Sospirò tra le nuvole di fumo: pazienza.
Rintracciò la scala nascosta tra i rovi e l'issò contro il fienile. Lassù c'era tutto quello di cui aveva bisogno: acqua, cibo, armi e munizioni. Il materasso non era un granché, ma da ragazzo aveva dormito in posti molto peggiori e stringendosi un po' c'era addirittura posto per un'altra persona. A pensarci bene c'erano parecchi lati positivi: finalmente avrebbe potuto dormire e riposarsi, le ultime giornate erano state piuttosto intense. Aveva svolto il lavoro a perfezione, senza sbagliare d'una virgola. Se le previsioni di Amedeo erano azzeccate, adesso si sarebbero mosse le alte sfere. Non la Polizia o i Carabinieri, ma qualcosa di molto più alto.
Sorrise soddisfatto: aveva pestato i calli al gigante addormentato e ne era uscito senza un graffio.