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Storia di silfad

In un tempo remoto e in un luogo lontano viveva un saggio di nome Silfad.
Egli viveva solo, in una torre scura e nera come la notte, avvolta da un manto di nebbia eterno. Si aggirava spesso nei corridori della torre, soffrendo per le molte colpe commesse, rivangando le atrocità che aveva compiuto. Ah, quanto dolore aveva recato agli esseri umani!
Si svegliava nel cuore della notte, agitato, sudato, gridando, rivedendo dentro sé le immagini di morte, dolore e potere che egli aveva esercitato su intere armate. Ma non era stato lui l'artefice di tanta malvagità. No, non era stato Silfad.
Sì, la mano di Silfad si era levata verso il cielo quel giorno gridando "morte" e "guerra". La mente di Silfad aveva sì creato quei progetti meschini, vili, per assoggettare, violentare e calpestare. Ma non era stato Silfad.

No, questa mano, la mia mano destra, è sì fatta della medesima carne della mano sinistra, la matrice che l`ha forgiata è la stessa, si vede bene, sono uguali, sono speculari ... sono collegate, dal mio cuore, dal mio braccio, dalla mia mente. Eppure, la mia mano non è fatta solo di questa carne. E' fatta dell'abilità, della capacità, del volere che la muove.
Perché la mano destra sa accarezzare il volto di una donna con movenze diverse, leggiadre, sa impugnare una penna, sa scrivere belle parole, che la mano sinistra non è in grado.
Eppur nulla le distingue se non il mio cuore, la mia volontà, la mia anima.
Dunque la mia mano non è fatta solo di questa carne che appare, la mia mano è costituita anche dal volere che la muove, e io non ero mosso dal mio volere quando commisi quegli atti. Un'altra entità malvagia si era attaccata alla mia anima e aveva succhiato la vita, il sangue, le energie. Si era appropriata del mio corpo.
Ma io non posso perdonare ciò che la mia carne ha fatto, i miei occhi hanno visto lo scempio, anche se non ero io a guardare.

Questi erano i suoi pensieri. Egli aveva prestato corpo e mente ad un operato che non riconosceva più. Decise un dì, quindi, di lasciare la torre per vagare solitario e pensoso per i deserti che attendevano al di fuori. Ma non andò nella direzione delle altre città, verso altri esseri umani, bensì scelse la solitudine ancor più completa. Non più circondato dal sole che illuminava e sparpagliava scaglie guizzanti di brevità nell'aria. No.
Scelse la via del nord, il nord disabitato, il nord sconosciuto, il nord buio. Silfad camminò a lungo, dormendo dove capitava, mangiando ciò che la natura gli offriva. Ma non era solo. Dietro di lui incombeva, nero e tetro, il malvagio spettro della morte. Come tutti noi. Sempre abbiamo dietro questo spirito intento a volteggiare sui nostri capi, sempre. Possiamo negarlo, ma esso rimane comunque alle nostre spalle.

Il sole calava all'orizzonte, Silfad attraversava un bosco.
A quel punto avvertì, lieve, alle sue spalle, il battito d'ali della morte. Ratto si voltò, ma vide nell'aria sovrastante, umida e nera, nulla se non le prime stelle affacciarsi nel cielo.
Perché la morte, sappiate bene, è molto veloce, è molto furba, nessuno la può riconoscere: può trasformarsi nelle persone, negli oggetti, nelle luci, nei sentimenti che più odiate.
E noi stentiamo a riconoscerla, anche quando troviamo un fiore reciso. Lo mettiamo in un vaso, con acqua fresca, carica di energia, per prolungare la morte di quel fiore. Ma quel fiore morrà. Se non muore adesso, morirà domani, e se non è domani, sarà domani ancora. Non gli si può ridare la vita. Anche riuscendo a trapiantarlo nel terreno, prima o poi morirà. Nessun fiore è eterno, come nulla è eterno, se non la morte.


Ma noi stupidamente continuiamo, giorno dopo giorno, a raccogliere i fiori recisi che troviamo per strada, a raccoglierli e metterli in grossi vasi, pieni di acqua, sperando che domani saremo ancora lì per vederli. E lo faremo anche quando sarà il giorno che domani non verrà. Noi sbagliamo, cresciamo, conosciamo i giorni, cerchiamo di diventare migliori. Quando prima o poi tutto il nostro lavoro andrà perduto.
E' come salire velocemente una collina che conduce ad un precipizio ed avere fretta di arrivare in cima, raccogliere tutto quello che troviamo per strada, portarlo con noi perché più in alto andremo, più oggetti avremo con noi, e più violenta sarà la caduta, poiché saremo carichi di peso.

Silfad, invece, aveva lasciato le sue ricchezze alle spalle. Pesante nel cuore, leggero nel corpo.
Era arrivato nel bosco al crepuscolo, si voltò e non vide nulla: solo stelle brillanti in lontananza. Il sole era tramontato. Davanti a lui c'era un ulivo. Un ulivo contorto, storto, piegato, dai rami rinsecchiti carichi di poche olive nere, le cui radici scure, grinzose, piantate nel terreno, cercavano di aggrapparsi con ferocia, non saldamente ancorate come avrebbero voluto.
Silfad non ebbe dubbi. Riconobbe in quell'albero la morte, che aveva preso le sembianze di un ulivo. Quasi sorrideva, ironica, del fatto che quest'uomo debole, umile e indifeso, la fissasse con quella luce negli occhi. Ma Silfad non la guardava con timore: sapeva che la sua ora non era giunta, anche se quella era la morte. Lo sapeva con tale certezza che estrasse la spada e la ficcò nella corteccia dell'ulivo, alla gola della morte stessa.
Stette così qualche istante, dopodiché la minacciò:

Orsù Sorella, Amante, Nemica: non nascondere più le tue forme, io ti ho riconosciuta, e ti sfido a scoprirti, a mostrarti.

La morte avvertì il gelido metallo triste e spaventevole della lama. Silfad era sicuro di aver dinanzi la morte, al punto tale che con un colpo secco e deciso sgozzò, se così si può dire, di netto il tronco dell'albero.
Nulla accadde. Solo qualche scheggia di legno si ribellò, reclamò, si contorse tingendosi di sfumature scure. Silfad non si sorprese alla vista del sangue: era il sangue della morte, non il suo. Prese la spada nella mano destra e disse:

Non occorre che neghi: io ti ho sconfitta. Solo l'unico mortale ad aver ucciso la morte, e per questo potrei vantare diritto sull'eternità. Ma ti ho sconfitta proprio perché disdegno tale dono. E quindi morirò assieme alla morte.

Così si trapassò, e il suo sangue si mescolò a quello dell'albero.
Incanto. Magia. Miracolo. Quel che accadde in quel momento rimane tutt'ora un Mistero. L'albero esplose, si contorse al suolo, si accasciò tremante, soffrendo, sconfitto. Dopo l'esplosione un liquido verde, scuro, dall'odore acre, macchiò tutto ciò che era nelle vicinanze, inondò il volto di Silfad. La morte si prosciugò. L'albero perse la sua energia, che uscì nell'aria circostante e si consumò come bruciata da un fuoco invisibile, lasciando soltanto un tronco senza vita.

Silfad cadde a terra, ma non era morto. Aveva veramente trionfato, con una certezza tale da togliersi la vita. Nessun mortale, mai, era riuscito in un'impresa simile. Scoprire la vera identità della morte, tra centinaia di false creature, ferirla e sconfiggerla. Ma siccome era vietato dalla legge dell'uomo, lo sconfiggere la morte, lui trovò un supplizio peggiore, sfidando il caos più totale, perdendo quanto di più caro gli era rimasto. La morte non poteva più prenderlo, questo fu l'errore di Silfad.
Perché Silfad perse sì tutto il proprio sangue, morì accasciandosi al suolo, il suo cuore si arrestò, smise di battere.
Ma lui non era morto. No. Era semplicemente senza vita, quindi non apparteneva più alla schiera dei mortali. Sono i mortali a vedere il fascino della cima e non la mole del loro carico, con la gola arsa continuano la ripida salita fino al precipizio e si gettano, ancora in corsa, e mentre cadono è troppo tardi per fermarsi, lacrime sgorgano violente dai loro occhi mentre precipitano nel vuoto, senza niente più attorno cui aggrapparsi perché le cose che hanno portato appresso precipitano affianco, per quanto cerchino di afferrarsi ad esse vanno ancora più giù ... e non serve a nulla.

Ma Silfad non aveva alcun fardello con sé. Il suo corpo veleggiò inerte sull'orlo del precipizio. Passarono i secoli, l'albero si consumò, il vento ne tagliò la cima, ma il corpo di Silfad rimase immutato, perché era senza vita eppure non era morto.
Non vi era più sangue nelle vene, nessun respiro, la mente non più annegava nel tormento.
Passarono i millenni, la terra si agitò, le acque travolsero l`intero territorio, il ghiaccio morse le terre, ma il corpo di Silfad rimase imprigionato sotto la neve.
Immobile, non ... morto.
Finché il mondo riprese un nuovo ciclo. Ricominciò da capo l'eternità. Esplosero i mondi, si mossero gli Dei, si plasmarono le terre, le correnti di energia si incanalarono in forme di vita, nacque di nuovo ... l'eterno.
Si sciolsero i ghiacci, dopo un lasso di tempo interminabile, tornò la vita nel cosmo. Tornò la vita e tornò la morte, perché la morte è un dono dato dalla vita stessa.
Se non esistesse questo precipizio in cima al monte, noi cammineremo per l'eternità, sempre più gravati dal peso dei fiori raccolti. E' la consapevolezza di questo precipizio a permetterci di camminare liberi.

Vi sono invece in altri mondi, in altre storie, in altre leggende ... creature eterne!
Esse non muoiono. Questi esseri non fanno altro che ricordare e piangere tutta l'eternità i fiori lasciati indietro, non fanno altro che avere nostalgia e malinconia di quanto incontrano nel loro continuo salire, di ciò che abbandonano, sapendo che quello che troveranno è sempre più triste e cupo di quanto hanno lasciato. Non possono tornare indietro perché la loro vita va solo in una direzione senza fine. Non riescono a fermarsi in un posto, o se si fermano in un luogo non proseguono più.

Invece le creature dotate del dono della morte salgono serene verso la cima del colle.
Non tutte, qualcuna spesso dimentica, e raccoglie: tutto. Dalle piante ai gioielli, gli amori, gli affetti, gli ori, per poi precipitare pesantemente nel baratro.
Ma vi sono coloro, baciati dalla fortuna, illuminati nel cuore, che camminano liberi da ogni peso, salgono sereni, abbeverandosi presso ogni sorgente, annusando fiori senza reciderli, dormendo sotto le stelle, vanno sereni verso il precipizio e cadono leggeri privi di rimpianto perché hanno percorso l'intera collina.
E gli manca solo il precipizio.

E' così, tornata la vita, tornò anche la morte.
Ed ogni essere dotato di vita crebbe con il proprio spettro della morte affianco a sé.
Ironia: Silfad esisteva già. Il suo corpo, senza vita ma non morto, si trovava nei ghiacci eterni. Fu creata la morte, ma non per Silfad. E allora, nel nuovo mondo, ecco che vi era un essere privo del proprio spettro della morte. Ciò non poteva essere. Poteva essere stato Silfad tale, prima, quando la morte era stato sconfitta.
Ma non poteva esserlo all'inizio di un'era. Per dare alla morte un'esistenza serviva la vita.


Silfad si rialzò in piedi, ma non era più umano: non sangue scorreva nelle sue vene, non cuore batteva nel petto. Silfad camminò per decenni, secoli e millenni, solo, nel mondo. Senza ricordi, senza sentimenti, senza il timore della morte. Intanto la sua carne iniziò a decomporsi, le ossa a sgretolarsi, e così Silfad non esistette più tra gli uomini.
Però Silfad era vivo, in quanto non era morto.
Era vivo, ma non più dotato della propria carne. Era vivo, senza sentimenti, senza emozioni, non più tangibile, non più materiale.

Cos'è codesta creatura? Non è un Dio, ma nemmeno un uomo.
Chi è colui che non è carnale, non è mortale, non prova pietà, non prova amore, non prova dolore e non conosce altre leggi se non le proprie?
Silfad divenne la Morte in terra.
Non lo spettro di un uomo, non la morte del singolo, ma il Male stesso.
Cos'è difatti il Male, se non l'essenza dell'indifferenza verso il prossimo?
Il male è l'eternità, la forza che si muove attraverso tutto, senza assolutamente preoccuparsi di quanto accade intorno.
In questo peccato cadono i mistici falliti, coloro che intraprendono la via dell'amore universale, scevro dal possesso, privo di interessi personali, brillante di pura contemplazione dell'anima altrui. Ma poi, delusione dopo sofferenza, questi santoni compiono tutti il medesimo errore: per amare in tal guisa cessano di curarsi del prossimo. Godono sì delle persone attorno a loro, ma lo fanno ben riparati dietro un muro di cristallo. Pur di non cedere a tentazioni umane quali gelosia, rabbia e invidia, imparano ad amare con indifferenza. Guardano alla vita come si guarda una recita teatrale. Amano gli attori dell'eterno spettacolo, evitando però di farsi trascinare sul palco.
Barattano le loro emozioni con il potere sulle emozioni. Governano sul nulla.

Così Silfad divenne potente, forte come nessun altro, perché nulla poteva toccarlo. Divenne la massima potenza, il male in questo nuovo universo, prima di lui privo del concetto stesso di male. Qualcuno lo chiamò Satana, qualcuno Lucifero. Altri si appellarono a lui come Belzebù, Zormas o Melkor.
Sollevò eserciti, mandò uomini contro altri uomini, separò persone, spezzò legami, provocò incendi, disastri, tradimenti, olocausti e piaghe.
Senza farlo di proposito, ma semplicemente perché non si curava di ciò che viveva attorno a lui, poiché ciò non poteva toccarlo.
In tal modo crebbe il Male in tutti i regni dell'universo, provocò gli eventi negativi della storia, e da questi Egli trasse forza. E prima o poi, questa nuova entità malvagia prenderà possesso di un'anima umana, muoverà di nuovo la sua mano, vedrà con i suoi occhi, penserà con la sua mente, e un nuovo Silfad si sveglierà un giorno con il cuore insanguinato per le colpe commesse. Innocente o colpevole?

Questa è la storia dell'uomo e dell'universo. Proverete stupore, forse proverete paura, perché non vi è nulla di più maligno del non curarsi di ciò che ci circonda.
Ma non siate tristi, perché questa non è una triste novella, bensì un monito: che il male è proprio ciò che non si cura, che ci comanda. Il male è colui che non prova dolore, colui che non prova gioia. Solo questo è il male. Nulla di più, nulla di meno.