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Dialogo con Sauron

Mòrondel aprì gli occhi a stento. I suoi muscoli affaticati urlarono dal dolore, primo atroce ricordo della recente battaglia. La visione che gli apparve lo riempì di orrore.
Fiaccole di luce nerastra, o almeno tali sembravano, danzavano goffamente intorno a lui abbracciate alle pareti umide e scure di una caverna sconosciuta. Un freddo piano di marmo malamente lavorato giaceva sotto la sua schiena, tenendolo sollevato da terra più di un normale giaciglio, quasi fosse un tavolo funerario. Le immagini danzanti iniziarono a rallentare, smorzando lentamente quel lugubre balletto di fiamme oscure. La vista tornò ad essere chiara e ferma. D'un tratto anche l'olfatto riprese coscienza e gli odori nauseabondi di cui l'aria era intrisa lo costrinsero a serrare violentemente gli occhi, facendogli desiderare di ripiombare in un sonno profondo privo di incubi tanto terribili.
Poco dopo udì dei passi pesanti e lenti, e una pezza inumidita in un liquido dall`odore pungente che veniva posta sulla sua fronte. Tentò di parlare, per chiedere dove si trovasse e cosa gli fosse accaduto, ma dalla sua bocca uscì solo un gorgoglio disumano che lo sconvolse - "Questa non è affatto la mia voce !" - pensò con disgusto.
"Non tentare di parlare" - rispose l'essere in piedi accanto al tavolo, con un suono roco e tenebroso, che parve uscire dalle viscere della terra più profonda, celata alla luce da tempi immemorabili. "Hai una brutta ferita alla gola, ma resterai in vita ugualmente, perché così ha ordinato il nostro Signore. E` Suo volere che tu guarisca in breve tempo, poiché abbisogna ancora del tuo consiglio".
La voce smise di brontolare per un attimo, mentre la pezza sulla fronte sembrava bruciare la pelle di Mòrondel. Nonostante ciò, quel liquido orribile lo riempiva di energia, soffocando il dolore che adesso riconosceva provenire dalla gola.
"Co... co... me è ... succ..." - le parole di Mòrondel erano onde infrante contro la roccia più dura, il fragore di una frana lontana che scende abbattendo alberi e piante.
"Cosa vuoi sapere ? " - gracchiò l`essere dietro di lui - "Ti interessa l`esito della nostra guerra ? ".
Al silenzio del ferito la voce rispose con altre domande.
"Vuoi sapere cosa stà tramando il nemico ... " - tentò spazientita la figura alle sue spalle - "... oppure ciò che è successo nella battaglia?".
Mòrondel si sforzò di compiere il cenno di consenso più chiaro che il collo dolorante gli permetteva.
"Ah, dunque non ricordi bene la tua fine in battaglia" - c`era adesso un velo di disprezzo e derisione in quelle parole - "Sei stato ferito alla gola, mentre tentavi di respingere le navi nemiche durante il loro approdo nel porto di Harlond. Eri stato collocato in retrovia proprio per informare il Capitano Nero, Signore dei Nazgul, di eventuali mosse impreviste compiute dal nemico. Purtroppo egli è caduto prima dell'arrivo del tuo messaggero, vanificando il tentativo di comunicare l'arrivo delle navi, e del volgare inganno compiuto dal nemico per attaccarci alle spalle".
Fosche immagini riaffiorarono lentamente nella mente del ferito, in modo così evidente da essere intuite persino dal misterioso individuo.
"Vedo che adesso ricordi" - proseguì la voce - "approfitta dunque del poco tempo che rimane per tornare padrone del tuo potere: l'Oscuro Sire ti riceverà molto presto".
Queste parole furono seguite dai rumorosi passi della creatura, che si allontanò da Mòrondel lasciando la pezza inumidita sulla sua fronte.
"La battaglia dei campi del Pelennor" - pensò Mòrondel - "ecco dove sono stato ferito". Ora ricordava i terribili eventi che lo avevano trascinato così vicino alla morte.
La roccia scura che lo circondava sembrava adesso meno ostile. Aguzzando la vista scorse il leggero bagliore di un'apertura alla sua sinistra, dalla quale si era allontanata la creatura che aveva curato le sue ferite. Le pareti poco illuminate lo ipnotizzarono, mentre la mente riviveva gli ultimi eventi.
Lo scontro infuriava violentemente finché lui, dalle retrovie, era indaffarato a dare ordini e consigli. Il suo amuleto aveva indicato prima l'arrivo dei Rohirrim, poi tutte le mosse della loro cavalleria, e i messaggeri di Mòrondel correvano senza tregua a riferire i movimenti nemici al Capitano Nero.
Sauron stesso gli aveva affidato quell'incarico. Dopo aver a lungo dubitato delle capacità di Mòrondel l'Oscuro Sire aveva deciso di dargli una seconda possibilità: provare il proprio potere sul campo di battaglia.
Un forte dolore alla gola cancellò il piacere di quel ricordo vittorioso, mentre nella sua mente continuavano a scorrere le immagini dello scontro. Gondor era prossima a cadere, i Rohirrim erano ormai sconfitti, e Mòrondel stata già gustando il sapore del trionfo quando il fato gli si volse contro. Stava consultando il suo amuleto, al fine di scoprire eventuali manovre diversive del nemico, e proprio nello scrutare le acque meridionali dell'Anduin vide le navi di Umbar. La sua gemma gli rivelò immediatamente l'arrivo di Aragorn, erede d'Isildur, e l'inevitabile sconfitta dell'Esercito Nero. Un brivido scosse tutte le sue membra, gelando il suo sangue elfico e facendogli mancare il terreno sotto i piedi. Passato l'attimo di smarrimento comprese che non vi era tempo da perdere. Dopo aver mandato un messaggero a riferire la venuta di Aragorn organizzò le retrovie in modo da impedire lo sbarco delle navi. Quello non era il suo compito, ma l'Erede d'Isildur stava giungendo troppo velocemente, ed occorreva ritardarne il più possibile l'ingresso in battaglia. In pochi istanti Mòrondel radunò qualche centinaio di Haradrim, gettandosi di corsa a difendere le banchine dell'Harlond. Ma era troppo tardi. Avrebbe dovuto consultare prima l'amuleto, Mòrondel fremeva per la rabbia mentre correva verso il porto, odiandosi per il suo errore, pronto a dare la propria vita per rimediare. Seguito dalle violente urla dell'orda di Haradrim si gettò contro il nemico, con la spada levata al cielo, i capelli mossi selvaggiamente dal vento. Riconobbe i famosi Dunedain, ne provò il valore e il coraggio, mentre combatteva disperatamente e veniva travolto dall'avanzata del nemico. D'un tratto una possente figura si aprì un varco innanzi a lui. Aragorn figlio di Arathorn si ergeva su tutti come un gigante, ed Andùril sembrava avvampare di fuoco bianco, tanto che Mòrondel stesso ne rimase affascinato. La Fiamma dell'Ovest si faceva largo tra gli Haradrim, non mirando ad uccidere i nemici, ma preoccupata solo di avanzare il più velocemente possibile. L'Erede d'Isildur la faceva danzare con eleganza e velocità, con l'impeto di chi vuole farsi strada nella foresta abbattendo tutto ciò che impedisce il passaggio.
Un altro brivido scosse Mòrondel. Il tavolo sui cui ora era sdraiato gli parve più freddo, mentre ricordava lo scontro con Aragorn. A nulla valse il tentativo di difendersi dal ramingo, la sua lama fu recisa come un fuscello da quella nemica. Aragorn lo guardò negli occhi un breve istante, solo il tempo necessario a sferrare il secondo colpo. Mòrondel rimase tanto colpito da quello sguardo fiero e terribile che non avvertì dolore mentre Andùril penetrava rapida nella sua gola, lacerandone le carni. Solo ora capiva che quello era il suo ultimo ricordo, aveva perso i sensi e si era accasciato al suolo, convinto di essere giunto alla fine dei suoi giorni. Invece era sopravvissuto. Adesso lo stavano curando, e Sauron stesso voleva nuovamente i suoi servigi.
Mille domande torturavano la stanca mente di Mòrondel. Perché Sauron necessitava del suo aiuto? La guerra non era dunque finita? Mòrondel doveva sapere dove si trovava, e come era finito l'assedio di Gondor. Adesso si rendeva conto che l'essere che aveva posto la fetida pezza sulla sua fronte era un orchetto, e ricordò che aveva parlato della battaglia.
Dunque il Capitano Nero era caduto! Questo gli aveva detto l'orchetto prima che Mòrondel ricordasse gli ultimi eventi. Ecco come mai il suo messaggero non aveva completato la missione, e le truppe si erano lasciate sorprendere da un attacco alle spalle. Mòrondel sentì che quella era la verità: Gondor non era caduta e l'esercito di Sauron era stato sconfitto. Nonostante ciò erano riusciti a trarlo in salvo e portarlo fino a quest'umida caverna, nascosta chissà dove.
Si guardò attorno, per cercare di capire in che posto si trovasse, ma non scorse alcun indizio. Probabilmente era a Minas Morgul, dove stavano preparando un secondo attacco, questa volta massiccio e definitivo. Mirando affascinato il tremolio delle torce, Mòrondel iniziò a comprendere che Sauron gli avrebbe di nuovo affidato l'incarico di consigliere di un Nazgul. Mentre iniziava a ricordare le ricompense promesse dall'Oscuro Sire le sue membra si rilassarono e sprofondò nell'oblio.

* * *

Il giorno successivo Mòrondel stava già meglio. Ogni fibra del suo corpo si lamentava appena accennava un movimento, ma alla fine rispondeva al volere di Mòrondel. Aiutato dall'orchetto riuscì a sedersi sul tavolo, ma non osò poggiare i piedi per terra.
Da quella posizione poteva vedere meglio la caverna che lo ospitava. Nera come la morte, illuminata appena da esigue fiaccole scure, schiacciata da un basso soffitto, la sua dimora era tutt'altro che accogliente. L'orchetto si muoveva con naturalezza attorno a Mòrondel, intento a cambiare le bende che coprivano la gola del ferito. Mòrondel invece era costretto a restare lievemente chinato, per evitare il contatto con il soffitto sudicio. Sicuramente il liquido con cui lo dissetavano era una pozione stregata, capace di soffocare il dolore e costringere i suoi muscoli esausti ad ubbidirgli. L'orchetto mescolò alcuni liquidi nerastri in una ciotola, vi versò delle scaglie rosse ed infine sorrise compiaciuto. "Con questo unguento tornerai presto a cantare le tue adorate canzoni" - disse l'orchetto mentre spalmava la pomata sulla gola di Mòrondel. L'elfo gridò dal dolore, emettendo solo un fièvole suono inarticolato. Quella poltiglia penetrava nella sua ferita come lava nel terreno arido, bruciando le carni e costringendo Mòrondel a violente contrazioni. Tutto il suo corpo si opponeva a quella tortura, tendendosi come la corda di un arco. La sua mente si annebbiò, il pavimento volteggiò goffamente davanti a lui e svenne.


Quando riprese i sensi era passato un altro giorno.
Nella caverna non c'era nessuno, così, senza rendersene conto, Mòrondel si trovò nuovamente seduto sul tavolo di pietra. Adesso poteva muovere le braccia senza difficoltà, e per prima cosa si tastò la gola. Una abbondante fasciatura ricopriva la ferita, ma ormai non provava più il dolore lancinante dei giorni precedenti. Anche le gambe sembravano riposate e pronte a camminare, quindi le mise subito alla prova. Traballò per un attimo, si appoggiò alla parete, ma dopo un istante era in piedi, soddisfatto ed orgoglioso. "Quale miglioramento" - gracchiò la voce ormai familiare mentre l'orchetto entrava nella caverna.
Mòrondel ne approfittò per guardarlo meglio. Il corpo tozzo, gli occhi brillanti come braci ardenti, i denti aguzzi: la creatura che lo aveva curato guardava incuriosita verso di lui. "Allora, sei pronto per essere ricevuto dal Signore ?".
"Che giorno è ?" - rispose Mòrondel lucidamente.
L'orchetto rimase qualche istante perplesso, poi aggrottò la fronte e si rivolse all'elfo con fare titubante. "Credo ... si, dovrebbe essere il venti di Marzo, se non sbaglio".
Mòrondel trasalì. Era stato ferito ben quattro giorni prima, e solo adesso tornava ad avere coscienza del tempo e dello spazio. "Quattro giorni" - sospirò - "Dunque sono rimasto qui dentro per quattro intere giornate !".
"Non lo direi con quel tono, fossi in te" - l'orchetto era visibilmente seccato - "Se il Signore in persona non fosse intervenuto, adesso saresti morto da altrettanto tempo. Una ferita di quel tipo è quasi mortale, delle cure ordinarie ti avrebbero rimesso in piedi solo dopo qualche settimana, e saresti rimasto muto per tutta la vita. Ma a Lui servi subito, perciò devi considerarti molto fortunato".
Mòrondel abbassò lo sguardo, pensieroso. Riconobbe la roccia irregolare sotto i suoi piedi, sporca di fuliggine, e capì dove si trovava: gli alloggi di Barad-Dur, la Torre Oscura.
Dunque Sauron voleva parlargli. Mentre usciva dalla caverna scortato da due orchetti armati di alabarda Mòrondel tese le orecchie, nella speranza di cogliere le frasi di coloro che incrociava. I cunicoli si facevano sempre più regolari man mano che salivano verso la cima della torre, ma l'oscurità rimaneva immutata. Ascoltando le poche parole pronunciate dagli orchetti della sua scorta Mòrondel riuscì a farsi un'idea degli ultimi eventi.
L'esercito nemico si era lanciato in un attacco senza speranze, marciando verso il Cancello Nero con un decimo delle forze necessarie per uno scontro alla pari. Si respirava ormai aria di vittoria, ma Mòrondel colse delle sfumature di paura nelle voci degli orchetti: forse temevano che il nemico nascondesse qualcosa, e nessuno osava dirlo.
Dopo pochi minuti il gruppo attraversò un ampio salone, e i fastidiosi odori che violentavano le narici dell'elfo si assopirono per un breve istante.
Mòrondel iniziava ad orientarsi, riconoscendo talvolta un corridoio, talvolta una sala, a volte addirittura i servitori personali dell'Oscuro Signore. L'aria pesante attutiva i suoni lontani, facendoli giungere pigramente alle orecchie di Morondel. L'elfo avanzava quasi in stato ipnotico, affascinato e spaventato al tempo stesso dalle tonalità scure degli arazzi, dai disegni macabri che adornavano le pareti umide, e da quei suoni ovattati. Infine riconobbe il massiccio portone borchiato che consentiva l'accesso alla Grande Sala di Barad-Dur, ove si trovava il seggio di Sauron. Il gruppo si presentò alla sentinella, quindi attese in religioso silenzio davanti al gigantesco portone. Quando i battenti si aprirono, tutti fecero istintivamente un passo indietro. La sentinella accennò un gesto appena comprensibile a Mòrondel, invitandolo ad entrare.
I piedi dell'elfo si mossero riluttanti, quasi rifiutassero il contatto con il freddo marmo nero del pavimento. Mòrondel aveva fatto pochi passi quando il portone si richiuse rumorosamente, lasciandolo da solo al cospetto dell'Oscuro Signore. Se i cunicoli di Barad-Dur erano apparsi a Mòrondel tetri e poco illuminati, era solo perché non ricordava in quale buio profondo era immersa la Grande Sala. A malapena i suoi occhi aguzzi percepivano una forma dai contorni poco definiti, simile più ad una fitta nebbia che ad una figura umana, seduta sul trono in fondo alla sala.
"Ti ho dunque sottratto alla morte, e di questo mi sarai certamente grato" - la voce di Sauron echeggiava nella sala, apparentemente provenendo da ogni angolo della stessa. Le sue parole fluivano nell'aria gravemente, simili al rombo di una tempesta lontana. "Finora non ero convinto dei presunti poteri dell' amuleto che porti al collo, fedele Mòrondel, ma mi è stato riferito di come hai scoperto l'arrivo delle navi nemiche, e del tuo eroico tentativo di impedire lo sbarco dei Dunedain. Il tuo intervento è stato inutile, ma non per colpa tua. Il mio Capitano è caduto, ed il tuo messaggero è giunto in ritardo."
Ogni fibra del corpo di Mòrondel si ribellava a quella voce, a quel timbro infernale, come se si trovasse sull'orlo di un abisso.
"Questa è stata una valorosa prova di fedeltà e coraggio, oltre che della veridicità dei tuoi poteri" - riprese la scura figura - "Ma non ho sbagliato dubitando di te in passato. Io, come ben sai, non commetto mai errori. Non aver ascoltato i tuoi consigli mi ha fatto perdere una battaglia, ma adesso noi vinceremo la guerra."
Una marea di ricordi travolse la mente stanca di Mòrondel, rammentò di aver aiutato l'Oscuro Signore in molti frangenti. L'attacco di Gondor era stato anticipato solo perché l'amuleto di Mòrondel aveva riferito che i cavalieri di Rohan stavano dirigendosi verso Minas Tirith, e l'Oscuro Signore quindi aveva deciso di accelerare i tempi. Il suo amuleto era stato sempre preciso nell'informarlo delle mosse avversarie, eppure Sauron aveva dubitato delle informazioni più importanti, accusandolo di fare il doppio gioco.
Mòrondel aveva scoperto l'esistenza dell'Erede d'Isildur, ma Sauron non gli aveva creduto. Anche quando Mòrondel riferì che l'Unico non si trovava a Gondor, bensì a Cirith Ungol, l'Oscuro Signore l'aveva deriso, accusando l'elfo di essere un traditore, e l'amuleto uno stratagemma del nemico. Dopo quegli eventi, Mòrondel era stato gettato nelle terribili sotterranee di Barad-Dur. Soltanto quando l'Erede d'Isildur mostrò la propria presenza attraverso il Palantìr le profezie di Mòrondel vennero riconosciute veritiere, e l'elfo fu scarcerato. Ovviamente Sauron non aveva sbagliato nel dubitare dell'amuleto, in tempo di guerra occorreva aspettarsi trucchi simili dal nemico. Mòrondel dovette porgere ulteriori scuse per aver esternato suggerimenti poco chiari, ma grazie a quell'umiliazione ottenne la possibilità di farsi perdonare, ricevendo un nuovo incarico: scoprire se l'Unico si trovava nelle mani dell'Erede d'Isildur. Come la volta precedente, Mòrondel fu trasportato da una Bestia Alata, cavalcando assieme ad un Nazgul attraverso i cieli.
Nella sua prima missione aveva sorvolato l'Entalluvio, scoprendo l'esistenza dell'Erede d'Isildur, la cavalcata dei Rohirrim, e la presenza dell'anello a Cirith Ungol; dopo la scarcerazione invece aveva esplorato i Monti Bianchi, sperando che l'amuleto percepisse la presenza dell'Unico. La ricerca venne però interrotta su ordine di Sauron, affinchè Mòrondel si recasse a dare man forte al Capitano Nero incaricato di conquistare Gondor.
Un lezzo nauseabondo riportò l'elfo al presente. Adesso l'Oscuro Signore aveva fiducia in Mòrondel e nell'amuleto, e solo per questo l'aveva strappato violentemente dall'abbraccio della morte. Se Sauron fosse stato in grado di utilizzare l'amuleto, Mòrondel sarebbe morto nei campi del Pelennor, invece, per qualche misterioso motivo, solo Mòrondel era in grado di ottenere informazioni dal pendaglio che portava al collo, e questo gli aveva salvato la vita.
Sauron sembrò avvicinarsi di qualche metro, rivolgendosi a Mòrondel in modo quasi confidenziale. "Il tuo comportamento in battaglia cancella i tuoi errori precedenti, così ho deciso di prometterti una ricompensa, se riuscirai nella tua prossima impresa. Sarai signore di Lothlòrien, una volta vinta la guerra, e regnerai in mio nome sui miei nuovi sudditi".
Una lunga pausa seguì queste parole, e la proposta echeggiò seducente nella mente di Mòrondel.
"Ma è fondamentale che il tuo amuleto questa volta mi fornisca una risposta rapida e sicura. Terminato l'assedio di Gondor, il nemico ha iniziato una folle marcia verso il Cancello Nero, sicuramente per creare un diversivo. Il loro stratagemma però è fallito. Ho scoperto che un potente guerriero elfico è passato per Cirith Ungol, e molto probabilmente possiede l'Unico. Anche se difficile da accettare, vi è un'unica spiegazione: da Valinor è giunto qualcuno di molto potente, ed ora il nemico gli ha affidato l'Unico per usarlo contro di me. Eppure mi sembra una mossa troppo evidente. Come possono credere di ingannarmi ? Come può un solo guerriero, pur munito dell'Unico, sperare di sconfiggermi ? Potrei gettare l'intero mio esercito contro il nemico, e sconfiggere gli avversari senza difficoltà, aspettando che l'Unico venga a me. Oppure potrei limitarmi a difendere le mie terre con una modesta guarnigione, e incaricare il resto delle forze di cercare l'intruso e recuperare l'Unico. Ho solo l'imbarazzo della scelta. Eppure, la stupidità del nemico non mi convince, voglio eliminare ogni dubbio. Se ricordo bene, una volta hai affermato che il tuo amuleto è tanto più affidabile quanto più vicino all'oggetto cercato. Non è così ? ".
Il tono della domanda era pesante e penetrante come una lama aguzza, tanto da gelare il sangue di Mòrondel. Sforzandosi di recuperare il proprio coraggio, l'elfo balbettò confuso la risposta - "Si, mio Signore. Il pendaglio permette di localizzare l'entità sulla quale mi concentro ... ma solo se essa si trova nei paraggi ... almeno finora ha funzionato così...".
Era la verità, ma lo sguardo di Sauron sembrava intuire ogni suo pensiero, e un cieco terrore si impadronì di Mòrondel.
"Bene. La tua missione sarà quella di determinare una volta per tutte la posizione dell'Unico. Domani cavalcherai un'altra volta su una Bestia Alata, sorvolando prima la zona tra la mia Torre e Cirith Ungol, poi l'esercito avversario. Una volta scoperto dove si trova l'Unico, getterò su di esso tutte le mie forze, e la vittoria sarà mia, mentre Lothlòrien sarà tua. Ma se sbagli, io sconfiggerò ugualmente il nemico, solamente con più fatica. E allora la tua agonia sarà lenta e crudele, nelle profonde fornaci della mia Torre".
Un altro silenzio oppresse la figura dell'elfo, annullando le sue capacità intellettive. Ci vollero parecchi secondi affinchè Mòrondel capisse che Sauron aveva terminato e stava aspettando l'ultima conferma.
"Si, mio Signore. Domani io e il mio amuleto eseguiremo con successo la Vostra volontà".
Dall'ombra emerse una striscia scura vagamente somigliante ad un braccio, al cui gesto Mòrondel si girò verso il portone ed iniziò a camminare.
Le due porte giganti si aprirono cigolando per permettere il passaggio dell'elfo, e fuori la sentinella lo presentò agli inservienti personali di Sauron, che avevano sostituito la scorta precedente. Mòrondel fu accompagnato ad un nuovo alloggio, molto più confortevole di tutti quelli che gli erano stati assegnati fin'ora, segno questo che la sua posizione di collaboratore era ormai ufficiale. Dopo aver esaudito alcune sue semplici richieste i servitori lo lasciarono solo nella stanza. L'odore era sempre fastidioso, la luce scarsa, ma l'arredamento era ricco e completo. Mòrondel poteva sedersi su un vero letto, e finalmente aveva a propria disposizione una sedia e un tavolo. La paglia si lamentò debolmente mentre l'elfo si sdraiava sul giaciglio per riposarsi e riflettere sulla situazione. Avrebbe voluto dormire, ma una intensa mareggiata di ricordi inondò la sua mente, costringendolo a rammentare l'intera esistenza. O almeno quanto ne ricordava.

* * *

Il suo vero nome era Càlandel. La verità sulle proprie origini gli era stata celata per anni, e solo ultimamente aveva scoperto il suo passato. Era nato a Bosco Atro molti secoli fa, tanto da non ricordare quasi nulla del suo periodo alla corte di re Thranduil.
La sua vita era cambiata nel 2941, quando aveva preso parte alla battaglia dei Cinque Eserciti. In quello scontro Mòrondel, o meglio Càlandel, aveva dato il meglio di sé e quando le ostilità stavano terminando era ancora illeso. Dopo l'arrivo delle Aquile molti orchetti tentarono la fuga e Calandèl si ritrovò in un gruppo intento ad inseguire gli sconfitti, ma dopo un centinaio di metri gli orchetti fecero ricorso ad un'ultima risorsa. Gli elfi non si aspettavano che qualcuno dei fuggitivi possedesse un'arma stregata, o fosse capace di adoperare la magia, così furono colti di sorpresa quando una violenta deflagrazione colpì il loro gruppo, Calandèl fu avvolto da fiamme scure assieme ai suoi compagni e perse i sensi in pochi istanti. Al suo risveglio era ad Esgaroth, con il viso completamente bendato, il corpo in gran parte ricoperto da ustioni e bruciature.
Come scoprì solo molti anni dopo, la violenza dell'esplosione gli aveva causato un'amnesia totale, e si risvegliò in un letto sconosciuto senza sapere chi era e cosa gli era successo. Gli uomini del lago lo avevano trovato sul campo di battaglia, con le vesti bruciate ed il viso ustionato, tanto da non accorgersi della sua stirpe elfica.
Càlandel era stato tra la vita e la morte per ben sette giorni, e solo l'amore e le premure di chi lo aveva soccorso avevano aiutato la sua ottima costituzione elfica a preservarlo dalla fine. Ci vollero settimane prima che gli venissero tolte le bende e il suo viso tornasse a vedere la luce del sole. Purtroppo il volto era completamente sfigurato, e nessuno riuscì a riconoscere in lui uno degli uomini dispersi nella battaglia.
Solo Nàrkal, un vecchio pescatore di Esgaroth che aveva perso il figlio Narad nella recente battaglia, vide nella corporatura dell'elfo una forte somiglianza con il figlio. Narkal aveva bisogno di aiuto per costruire e riparare le reti, ed anche se non sicuro della somiglianza si offrì di adottare il ferito come fosse suo figlio. L'elfo accettò quel pescatore come un padre e Narad come nome, rimanendo però confuso e disorientato per la totale mancanza di ricordi. Convinto che la causa di tutto fosse l'amnesia, Narkal dovette insegnare nuovamente al figlio a tessere e rammendare le reti, e per lo stesso motivo Càlandel accettò di imparare. Ma negli anni successivi il vecchio pescatore andò sempre più accorgendosi che Càlandel non era il figlio perduto. Da piccoli gesti istintivi, dal modo di camminare e di parlare, dalla voce dolce e sonora tutta Esgaroth iniziò a sospettare che Càlandel fosse in realtà un Elfo Silvano. Tra i due era però nato un grande affetto, proprio come tra padre e figlio, e per Narkal questo era più importante delle vere origini di Càlandel, qualunque esse fossero. Per qualche tempo si discusse se chiedere agli Elfi Silvani di riconoscere Càlandel, ma considerate le volontà di Narkal e Càlandel re Bard decise di lasciarli vivere assieme.
L'elfo fu molto felice di restare ad Esgaroth. Non ricordava nulla del proprio passato, e si era appena familiarizzato con la città del lago. Aveva imparato a costruire ottime reti da pesca e trovato degli amici: l'idea di trasferirsi in un posto sconosciuto, con il rischio di dover abbandonare l'unico mondo di cui aveva memoria, lo aveva terrorizzato. L'acque cristalline del lago, lo sguazzare dei pesci nella rete, il sapore fresco e delicato dell'alba facevano ormai parte della sua vita.
Il tempo aiutò Càlandel ad apprezzare sempre più la splendida cornice naturale che circondava Esgaroth, ma lo stesso non si può dire per i rapporti con i suoi concittadini. Càlandel era diverso, su questo non vi era dubbio alcuno. Lentamente, piccole incomprensioni iniziarono a venire a galla, e l'elfo iniziò ad accorgersi di quanto gli uomini del lago impostassero una vita contorta e artificiosa, erano sempre insoddisfatti, e perdevano inutili energie nella ricerca di sfruttare al meglio le terre e le acque. Una strana forza motivava le loro azioni. Sembrava una missione, un bisogno incontrollabile di conoscere l'ignoto, di fare nuove scoperte, come se la qualità della vita migliorasse di pari passo con la complessità dei mezzi utilizzati. L'elfo si concentrava nel costruire reti robuste e piacevoli da ammirare, i suoi intrecci erano solidi e leggeri, bastava toccarle per sentire con quale grazia erano state costruite. Gli uomini avevano altri obbiettivi. A loro non interessava la qualità della rete, ma solo quanto pesce poteva pescare. Anche nello sfruttamento delle terre la quantità delle risorse ottenute veniva prima della qualità del raccolto, e spesso inventavano macchine o utensili elaborati per aiutarsi nel lavoro. Facevano tutto questo senza preoccuparsi di rispettare pienamente la natura, abbattendo alberi se necessario, e imprecando contro le stagioni poco benigne. Queste differenze convinsero Càlandel della propria diversità, portandolo purtroppo a delle conclusioni errate. Non riuscendo a credere alle voci sulle proprie origini elfiche, egli andò convincendosi che non era originario di Esgaroth, ma proveniva da un altro insediamento umano. L'elfo comunque tenne per sé queste considerazioni, che rimasero solo dei pensieri rumorosi formulati durante le sue passeggiate solitarie.
Amava molto camminare lungo le sponde del lago, cantando tristi canzoni con la sua voce dolcissima, intrise di malinconia e visioni suggestive.
In quelle ore solitarie si interrogava profondamente. Perché gli uomini del lago temevano così fortemente la morte? A volte Càlandel vedeva nelle loro scoperte e invenzioni una ricerca di immortalità, un bisogno di negare il destino e il volere supremo. Questa sensazione gli veniva confermata dai sentimenti emanati dagli alberi che avvicinava, capacità percettiva a lui naturale e spontanea, tenuta segreta nel timore di essere dichiarato elfo e allontanato da suo padre Narkal. Le piante gli narravano di ere passate, di luci magiche e storie melanconiche, di grandi eroi e di scontri titanici. Questi racconti toccavano la sua anima, e spesso scopriva delle lacrime scorrere calde sulle guance mentre gli alberi trasmettevano le emozioni di vicende passate. Il bosco intero sembrava parlargli, convincendolo sempre più che la morte era in realtà un dono meraviglioso, capace da solo di dare un significato all'esistenza umana.
Ma pur essendo sicuro di essere un uomo, talvolta Càlandel si trovava stupito nel riconoscere un'ombra di invidia verso la mortalità, come se nel profondo fosse conscio della sua vera natura elfica.

Dopo oltre dieci anni che viveva ad Esgaroth l'elfo iniziò a convincersi che non sarebbe mai stato a suo agio tra gli uomini del lago. Suo padre era ormai vecchio, e si era ritirato dall'attività di pescatore per concentrarsi su quella meno faticosa di costruttore di reti.
Neanche un anno dopo giunse ad Esgaroth la voce che a Pelargir vi era una grande richiesta di reti, i costruttori ne producevano in misura molto inferiore al necessario. L'abilità di Narkal era conosciuta in tutto in nord, così in molti consigliarono al vecchio artigiano di vendere le proprie reti attraverso l'Anduin. "E' troppo lontano" - rispondeva Narkal a tutti - "un commercio con terre così distanti non sarà mai conveniente. E poi io sono nato pescatore, non commerciante". Càlandel vide la sua grande occasione. Convinto che tra gli uomini del lago non sarebbe mai stato felice, e che i suoi simili fossero gli abitanti del sud, desiderò ardentemente mettersi in viaggio alla ricerca delle proprie origini. Quindi avvicinò Narkal dicendo - "Padre, io e te siamo ormai una famiglia, ma null'altro ci lega a Lagolungo. Tu non hai altre parentele, ed io qui mi sento soffocare. Sai bene che parlano di me come di un pazzo, che ama più la solitudine della compagnia umana. Perché non scendiamo l'Anduin assieme, e andiamo a vivere a Pelargir ? Io sarò senz'altro più felice, e ti aiuterò nel costruire e vendere le migliori reti del sud."
Narkal lo guardò negli occhi dolcemente, poi respirò a fondo e rispose - "Voglio ascoltare il tuo cuore, figlio mio. Partiremo verso sud, verso lidi più temperati. Ormai anche il mio vecchio e stanco corpo reclama un clima migliore, non potendo più sopportare il freddo di queste terre".
Poche mesi dopo, nella primavera del 2958, i due lasciarono Lagolungo per attraversare Bosco Atro e raggiungere i boscaioli che vivevano lungo le sponde orientali dell'Anduin, dove si imbarcarono su un battello che scendeva il fiume. Il viaggio attraverso la foresta destò in Càlandel immagini del suo passato, spaventandolo ed affascinandolo al tempo stesso. Il timido bagliore del sole nascosto dietro le verdi foglie, i rumori degli animali e l'odore del muschio si rivelarono sensazioni dolci e conosciute. Càlandel visse il viaggio sul battello a metà tra la gioia di una nuova vita e il presentimento di essere vicino alle sue origini. Solo quando la piccola imbarcazione passò per Lothlòrien la nebbia che avvolgeva i suoi ricordi si diradò per un istante, portandolo vicino alla verità. Mentre la fragile nave muoveva silenziosa lungo le acque una strana malia si impadronì della sua mente. Udì richiami ancestrali, voci incantate, canti lontani e leggiadri, che nessun altro pareva sentire. Durante una sosta per la notte l'elfo si allontanò dall'accampamento per fare due passi, inoltrandosi nel Bosco d'oro per qualche centinaio di metri. Il vento accarezzava con calore il suo viso, ed una folata improvvisa portò ai suoi piedi un piccolo oggetto luccicante. Era una foglia brillante come oro puro, leggera e profumata. Càlandel la raccolse affascinato e la depose in una tasca, quasi senza rendersi conto dell'importanza di quel semplice gesto. Nei giorni seguenti, mentre il battello proseguiva la sua discesa lungo l'Anduin, Càlandel si scoprì spesso intento ad accarezzare quella piccola foglia, e strani ricordi iniziarono ad affiorare nella sua mente.
Giunti a Pelargir, Narkal e Càlandel iniziarono a produrre reti in grande quantità, e gli affari si avviarono molto velocemente. Nel giro di pochi mesi furono spinti ad assumere un aiutante, poi un altro. Il vecchio Narkal era molto soddisfatto, e più di una volta ringraziò il figlio adottivo per averlo convinto ad affrontare il viaggio. Càlandel invece era sempre più triste, gli uomini di Pelargir erano diversi da quelli di Lagolungo, ma non come sperava l'elfo: anche lì non si sentiva tra i suoi simili. Passò quasi un anno, e Càlandel divenne nuovamente solitario e silenzioso. Riprese a fare delle lunghe passeggiate al chiarore delle stelle, assorto in oscuri pensieri e dubbi profondi.
Portava sempre con sé la foglia d'oro, la quale, per qualche strano motivo, pareva immune allo scorrere del tempo, ed era rimasta sempre fresca e profumata da quando Càlandel l'aveva trovata a Lothlorien.
Una sera l'elfo si accorse di aver smarrito quel piccolo gioiello. La cercò disperatamente in tutta la casa dove abitava con Narkal, ma senza risultato, e non riuscendo ad arrendersi corse fuori, nella speranza di ritrovarla lungo il sentiero dove amava passeggiare da solo. La luna piena splendeva alta nel cielo e il mormorio degli alberi faticava a coprire il lieve rumore dei suoi passi. Càlandel vagò per ore, percorrendo invano tutti i sentieri che aveva praticato nelle ultime settimane, cadendo lentamente in una profonda depressione. Alla fine crollò in ginocchio, esausto. Rivolse gli occhi alle stelle, e in uno stato di semi incoscienza sussurrò : "Oh Elbereth, oh Ghiltoniel, come ho potuto smarrire la foglia dorata ? Ti prego, illumina il mio cammino ed aiutami a ritrovarla." Pronunciò queste parole senza rendersene conto, rimanendo stupito ad ascoltare la propria voce. Una stella incastonata nel manto notturno scintillò per un attimo, e il riflesso fece balenare qualcosa davanti a lui. Aveva ritrovato la foglia di Lothlorien e il ricordo delle sue origini elfiche.

* * *

Era inutile tentare di dormire. Mòrondel si rigirò nel letto per l'ennesima volta, con la gola ancora dolorante per la ferita e le membra stanche. Si era congedato da Sauron da un paio d'ore, tempo che aveva sprecato ricordando il proprio passato. Perché mai gli erano tornati in mente gli anni della sua amnesia ? Domani avrebbe cavalcato una Bestia Alata, avrebbe individuato l'Unico garantendosi la carica di sovrano di Lothlorien. Forse era stata questa promessa a destare in lui il ricordo del Bosco d'oro e della foglia che gli aveva permesso di ritrovare la memoria. Ma non era così. Il suo passato era decisivo in questo momento della sua vita, non riusciva a capirne il motivo ma ne era sicuro.
C'era qualcosa che tentava disperatamente di riaffiorare tra i suoi ricordi, agitandosi come un uccello intrappolato nelle rete e conscio di essere vicino alla morte. La sua paura principale era di aver dimenticato qualche particolare importante, qualche dote degli elfi che adesso poteva far saltare i suoi piani. Lui aveva l'amuleto, la scheggia del Palantìr che permetteva di individuare qualsiasi oggetto o persona, e Sauron la rendeva ancora più potente ed efficace. Aveva già scartato l'ipotesi che il discendente d'Isildur potesse vanificare il potere dell'amuleto. Il ramingo era riuscito a resistere al potere di Sauron, non a sconfiggerlo, quindi non era in grado di impedire a Mòrondel di usare l'amuleto. Si trattava di qualcos'altro, qualcosa che aveva a che fare con il suo passato di elfo, ed era molto importante.
Mòrondel si alzò dal letto e si sedette sulla sedia ossuta, accarezzando con le mani le nervature rugose del tavolo in legno. Fuori dalla stanza si udivano i passi pesanti degli orchetti che andavano avanti e indietro, portando ordini e messaggi da una parte all'altra di Barad-Dur.
Le loro voci graffiavano l'aria umida della camera, e persino la candela sembrava tremare quando un orchetto imprecava qualcosa ad alta voce. Il ritmo di quei suoni era quasi ipnotico, come la danza regolare delle ombre nella piccola stanza, e la mente di Mòrondel si proiettò un'altra volta nel passato.

Quando aveva ritrovato la memoria, tutte le domande di Càlandel avevano avuto risposta. Era stato Ilùvatar a donare agli uomini la loro ansia per la ricerca e agli Elfi una vita aggraziata, splendente ed immortale.
La malinconia che lo aveva accompagnato negli anni passati ad Esgaroth era la nostalgia del bosco, della Luna, e delle notti incantate passate a cantare sotto le stelle. Non vi era nulla di strano in lui, semplicemente era un elfo e non un uomo mortale. La consapevolezza di avere una vita eterna dinanzi a sé frenò il suo impulso istintivo di tornare a Bosco Atro, non poteva abbandonare Narkal così all'improvviso, il vecchio costruttore di reti non era in grado di gestire la nuova attività da solo, e l'affetto sincero che li legava impediva a Càlandel di ignorare il problema. A Narkal non restavano molti anni da vivere e l'elfo decise di tener segreto il ritrovamento della memoria, restando a fianco del padre adottivo come un vero figlio. Il periodo successivo fu uno dei più sereni della sua esistenza, poiché non si stupiva più di scoprirsi ogni giorno diverso dagli uomini di Pelargir, simili tutto sommato a quelli di Esgaroth. L'elfo ormai accettava queste differenze con naturalezza, conscio delle proprie origini e delle diversità che ne derivavano. A lui una lunga vita senza malattie, agli uomini la brama di sfruttare al meglio le potenzialità della loro breve esistenza. Purtroppo, quasi due anni dopo che Calandel aveva ritrovato la memoria, suo padre Narkal iniziò ad ammalarsi sempre più frequentemente, e fu costretto a passare lunghi periodi di convalescenza immobilizzato nel letto. Càlandel prese ad occuparsi della loro piccola attività artigianale, cavandosela benissimo nei primi tempi. L'elfo promise a sé stesso di regalare a Narkal una vecchiaia serena ed una morte priva di sofferenze, ma il destino non glielo permise. Proprio in quel periodo a Pelargir fu scoperta una nuova tecnica di costruzione di reti da pesca, e la concorrenza si fece rapidamente spietata e totale, il vigore di Narkal si era assopito, non era più in grado di interessarsi direttamente del problema, così toccava a Càlandel trovare il modo di fronteggiare la situazione ed evitare il disastro.
Purtroppo, da quando aveva scoperto la propria natura elfica, Càlandel faceva ancora più fatica di prima nel comprendere i freddi meccanismi della logica umana, e la loro definizione di qualità. L'elfo progettava reti sempre più belle e leggere, ma nulla poteva contro la concorrenza, la quale offriva prodotti apparentemente rozzi, capaci però di raddoppiare la quantità di pesce catturato. Nel giro di qualche mese Càlandel si vide costretto a privarsi degli aiutanti assunti in passato, e gli affari precipitarono completamente. Il vecchio Narkal passava le giornate a letto, soffrendo il freddo e la fame nonostante la buona volontà e gli innumerevoli sforzi di Càlandel. Quello di cui egli sentiva la totale mancanza era lo stimolo dell'invenzione, della scoperta di un nuovo metodo o di una nuova tecnica.
Solo in quel periodo capì che il sentimento di distacco provato per gli uomini non era disprezzo, né paura, né pietà. Era invidia. Càlandel era lieto di avere movimenti aggraziati e una bella voce, ma tutto questo non serviva a dare a suo padre una morte degna e priva d'agonia. Le sue canzoni, ripeteva Narkal, bastavano a renderlo felice. Ma l'elfo si vergognava di non riuscire a sfamare colui che lo aveva amato come un figlio, e che adesso stava morendo. Il dolore e la rabbia provocarono in Càlandel una reazione violenta, capace di indurre un mutamento decisivo nella sua anima. Si gettò a capofitto nello studio delle arti umane, divorò i libri di storia, frequentò assiduamente mercanti e artigiani. Passava ore ed ore chino sui libri, ingobbito e avvolto in una coperta bucata, talvolta studiando anche di notte alla sola luce della Luna, non potendo permettersi la spesa di una candela. Imparò le tecniche per intagliare le pietre e lavorare i tessuti, sconfinò nella metallurgia, magia, storia e filosofia. Ma più studiava più si accorgeva di perdere tempo, e la sua rabbia cresceva ormai senza freni, tanto da portarlo ad odiare e disprezzare la sue origini elfiche.
Ormai parlava come gli uomini, studiava come gli uomini, aveva i loro stessi valori e le loro ansie, eppure non riusciva là dove loro eccellevano. Perché ? Suo padre era in punto di morte, ridotto a pelle ed ossa, senza neanche un caminetto acceso per riscaldare gli ultimi attimi di una vita divisa in gran parte con un figlio adottivo, e lui non riusciva ad aiutarlo. Càlandel viveva praticamente di elemosina, ed ormai aveva perso ogni speranza, finché una notte uno strano sogno lo aiutò a chiarire la situazione. Elbereth gli apparve dall'alto delle montagne di Aman, così parlando - "Tu stai indossando una maschera, Càlandel, nulla di più. Vivi come un uomo normale, agisci e pensi come uno di loro, ma ciò non è sufficiente. Non basta apparire per essere, prima devi rinunciare alla tua vera natura. Se vuoi davvero avere i doni dei mortali, dovrai rinnegare quelli Elfici. Ilùvatar non ha mai concesso, e mai concederà, entrambi i doni ad un vivente. Non puoi essere elfo nell'anima ed uomo nella mente. Devi scegliere se uniformare la tua mente alla tua anima, o viceversa. Fai la tua scelta, ma serenamente, in modo da non pentirtene mai. Addio, Càlandel figlio di Mersathàl".
Dopo quel sogno Càlandel iniziò a provare un odio profondo verso i Valar, che lo costringevano ad una sì crudele scelta: aveva quasi raggiunto il compromesso tra le due stirpi, ed ora questo gli veniva negato. L'odio si mescolò alla rabbia ed alla disperazione per le sofferenze di Narkal, e lentamente si trasformò in sete di vendetta, al punto che l'elfo decise di cambiare il suo nome in Mòrondel ed imprecò contro Elbereth e Manwe.
Fino a quel momento Càlandel aveva conservato tutte le caratteristiche della sua stirpe elfica, a parte ovviamente la bellezza che aveva perso quando il suo volto era stato sfigurato dalle ustioni, ma ribattezzandosi Mòrondel aveva fatto la sua scelta. I mesi passati a studiare in condizioni disagiate si fecero sentire tutti assieme, e nel giro di pochi giorni Mòrondel si accorse di aver perso quasi completamente la grazia nei movimenti, la sua camminata era imprecisa, la schiena si era incurvata, il suo sguardo era stato spogliato dalla luce brillante di un tempo. Solo la sua voce era rimasta gentile e musicale, e quando parlava tutti rimanevano stupiti nell'udire un'aquila cantare con la voce di un usignolo.
Càlandel era morto, ed al suo posto era apparso Mòrondel.
La metamorfosi diede i frutti previsti, proprio come aveva anticipato la profezia del sogno. Non passava un giorno senza che Mòrondel non scoprisse un nuovo particolare, un modo più ingegnoso di intrecciare una corda o costruire una rete. Si aiutò anche con la magia, e nel giro di poche settimane le sue reti tornarono ad essere le più richieste di tutta Pelargir. Gli incantesimi di Mòrondel richiamavano i pesci nella rete, la cui maglia era irregolare ed economica, ma bastava a catturare le prede senza possibilità di errore. Le "reti di Narad", dette anche Narader, divennero subito famose e si diffusero rapidamente in tutto il sud. Con i guadagni Mòrondel fece appena in tempo a regalare al padre pochi giorni di vita serena, ed a organizzare una sontuosa cerimonia funebre. Il corpo di Narkal venne gettato nell'Anduin tra una pioggia di petali profumati. Arrivarono addirittura uomini da Lagolungo per rendere omaggio al famoso artigiano.
Nulla più legava Mòrondel a Pelargir e l'elfo poteva finalmente tornare a Bosco Atro, ma ormai la cosa non lo interessava. La vendita di reti andava a gonfie vele, i suoi forzieri si riempivano d'oro ed il suo nome era riverito e rispettato, dunque perché tornare tra gli elfi? La mutazione era ormai completa, l'anima di Mòrondel aveva assunto connotati umani e la ricchezza era diventata uno dei suoi valori principali. L'elfo continuò a vivere a Pelargir, accumulando denaro e volgendosi sempre più allo studio dei segreti nascosti agli uomini.
Suo padre era morto nel 2963, Mòrondel impiegò i quarant'anni successivi dedicandosi all'artigianato, al commercio ed alla scienza, sconfinando sempre più nella magia. Fu grazie alla combinazione di tutti questi studi che Mòrondel riuscì a mettere le mani su una scheggia del Palantìr ed usarla per costruire il suo potente amuleto.

* * *

Avvolto dall'oscurità si risvegliò dopo aver dormito steso sul tavolo, in una posizione scomoda e fastidiosa. La candela si era consumata del tutto e Mòrondel comprese che aveva riposato per molte ore. Fuori dalla porta ripresero a bussare con più insistenza, chiamando a voce alta il suo nome. "Mòrondel, il Signore manda a chiamarti per cavalcare la Bestia Alata. Puoi aprire la porta?". Il fischiare ed il gracchiare della voce destarono completamente i sensi intorpiditi dell'elfo, che si drizzò rapido sulla sedia. Il sole, filtrando a fatica con pochi raggi sterili nel nero cielo di Mordor, proiettava esili capelli di luce bionda attraverso la finestra socchiusa. "Sto arrivando, un momento. Mi ero assopito". Dunque aveva passato tutta la notte a ricordare il periodo trascorso a Pelargir, ed infine si era addormentato sul tavolo. Ora tutte le sue ossa si lamentavano per il torpore dovuto alla scomoda posizione nella quale aveva costretto il proprio corpo, e la testa si fece improvvisamente pesante quando si alzò in piedi. Il soffitto della stanza era basso e irregolare, mentre raccoglieva le sue poche cose l'elfo dovette prestare attenzione a non urtare qualche sporgenza rocciosa. Nel corridoio esterno era sceso il silenzio, colui che era venuto a prenderlo aveva smesso di bussare ed ora attendeva pazientemente. Mòrondel si tastò il petto, provando una sensazione di piacevole calore nell'avvertire la presenza del suo amuleto sotto gli abiti. Era sempre lì, non l'aveva perso. Aveva incastonato la scheggia del Palantir formando un grazioso pendaglio, che portava sempre al collo da molti anni.
Quell'amuleto era la cosa più cara rimasta a Mòrondel, non avrebbe mai sopportato l'idea di smarrirlo. Traballando leggermente l'elfo di avvicinò alla porta e l'aprì con timidezza, trovandosi davanti a due orchetti della Guardia Speciale, orgogliosi della loro forza e delle robuste armature decorate. Lo guardarono con noncuranza, quindi si voltarono iniziando a camminare di gran passo. Mòrondel faticava a tenerli dietro, ma sapeva benissimo che non era il caso di mettersi a discutere con loro. Come il giorno prima il percorso era in salita, verso la sommità di Barad-Dur, dove vivevano le possenti Bestie Alate. Nere pareti scorrevano ai fianchi di Mòrondel mentre il gruppo avanzava dentro corridoi che potevano facilmente essere confusi con le putride viscere di un gigantesco drago. Il lezzo nauseabondo delle creature volanti si faceva sempre più vicino e un cieco senso di terrore, purtroppo familiare, prese ad impossessarsi della mente di Mòrondel. Ricordava benissimo la prima volta che aveva sentito quell'odore e quella sensazione di morte a Pelargir. Erano passati solo due mesi, ma a Mòrondel sembrava un'eternità da quando Sauron l'aveva fatto rapire da una Bestia Alata per scoprire di più sul suo amuleto. Il Palantìr gli aveva donato i poteri che adesso possedeva, e sempre il Palantìr aveva permesso all'Oscuro Signore di percepire ed individuare la presenza di Morondel.
L'amuleto era stata la chiave della sua terza vita. Dopo secoli vissuti come Elfo Silvano a Bosco Atro e vent'anni passati in compagnia di Narkal convinto di essere un uomo mortale, il ritrovamento della scheggia del Palantìr aveva fatto di Mòrondel la persona potente e rispettata che era tutt'ora. Il sapore di quel ricordo fu tanto dolce e intrigante da indurlo ancora una volta a rivivere il proprio passato.

Suo padre era morto da quasi quarant'anni quando Mòrondel iniziò a dedicarsi alla ricerca dei Palantìri. Da molto tempo si era stancato di produrre solo reti da pesca, e i suoi interessi avevano toccato la lavorazione dei metalli, delle pietre e dei gioielli, grazie ai suoi modesti studi di magia era in grado di produrre talismani che vendeva ai ricchi commercianti di Pelargir, arricchendosi sempre più e diventando stimato e rispettato in tutta la città.
La sua anima però era andata corrompendosi in modo irreversibile, al punto che nessuno ormai nutriva dubbi sulle sua natura umana e in molti ridevano delle vecchie dicerie sulle sue presunte origini elfiche. Mòrondel non invecchiava come un normale essere umano, tutti lo notavano, ma attribuivano questo fenomeno ai suoi poteri di mago, così la sua fama si ingigantì oltre misura, e il suo nome venne accostato a quello delle persone più potenti delle terre meridionali. Mòrondel sospettava solamente quale era la verità, ricordando ormai molto poco della sua trasformazione.
La sua natura elfica era sconfitta, non distrutta. Il suo aspetto e i suoi movimenti erano indistinguibili da quelli umani, ma possedeva ancora la voce e la longevità tipica degli elfi. Molto raramente un senso di nostalgia attanagliava il suo cuore, quando si scopriva intento a pensare a Bosco Atro, ma Mòrondel scacciava sempre quelle immagini, lo facevano troppo soffrire per motivi inutili, e tornava a concentrarsi sui suoi loschi affari.
Il Palantìr fu il suo obiettivo principale nei primissimi anni del terzo millennio. Quella pietra magica offriva la conoscenza totale, la possibilità di espandere il proprio dominio, e consolidare il potere. Mòrondel studiò a lungo le tracce dei sette Palantiri, scoprendo dove aveva senso tentare di cercarli. Quello conservato a Minas Ithil era quasi sicuramente finito nelle mani di Sauron, e in quegli anni questo bastò a far desistere Mòrondel dal continuare su quella strada. Osgilliath ne aveva custodito uno in passato, le cui tracce erano state perse assieme allo splendore della città, sarebbe bastato risalire l'Anduin, e cercare tra le rovine dell'antico insediamento per valutare se era possibile trovare delle indicazioni sul Palantìr. Nell'estate del 3014, dopo quasi quindici anni di affannose ricerche, durante l'ennesimo filtraggio dei fondali del fiume con delle reti progettate per l'occasione dall'esperto Mòrondel, l'elfo ritrovò una scheggia semitrasparente che poteva appartenere al Palantìr.
Dopo aver portato il frammento nel suo laboratorio a Pelargir, Mòrondel passò intere settimane ad esaminarlo, come aveva fatto molte altre volte con tutte le pietre candidate ad essere l'oggetto della sua ricerca.
Ma stavolta si trattava veramente della scheggia di un Palantir, non vi erano dubbi. La scoperta emozionò moltissimo l'elfo, tanto da fargli dimenticare tutte le altre attività e i suoi affari. Le ricerche del Palantìr furono sospese e Mòrondel si rinchiuse per oltre un anno nella sua abitazione passando le giornate a studiare la scheggia e i suoi poteri. Alla fine l'amuleto era pronto. Indossarlo lo faceva sentire ancora più potente e sicuro di sé, e dopo poco tempo Mòrondel iniziò a trarre vantaggio dal suo nuovo potere, se stringeva la pietra tra le mani e pensava intensamente ad un oggetto o ad una persona, l'elfo era capace di percepirne la presenza e l'ubicazione nel raggio di qualche miglio. Tesori di cui si era persa ogni traccia furono ritrovati da Mòrondel grazie ad una semplice descrizione sommaria, e le sue ricchezze aumentarono ancora una volta. L'amuleto gli permetteva di individuare una persona con certe caratteristiche, così Mòrondel poteva avvicinare individui particolarmente ingenui da sfruttare, senza possibilità di errore, capiva di chi poteva fidarsi, se qualcuno lo stava spiando, se una persona era invidiosa della sua posizione e tramava di nascosto per danneggiarlo, era sufficiente per l'elfo concentrarsi su un'emozione e l'amuleto gli indicava se nei paraggi vi erano persone che la stavano vivendo. Lo stesso valeva per il lignaggio e i sentimenti, qualsiasi informazione emotiva o inconscia bastava per individuare la sorgente della stessa. Questo grande potere consolidò maggiormente la sua rinomata posizione a Pelargir, almeno per gli anni immediatamente successivi.

Mòrondel possedeva l'amuleto da un paio d'anni quando conobbe Alatar.
Una sera fredda e piovosa del 3018 l'elfo aveva organizzato un ricevimento nel suo splendente palazzo di Pelargir, e le persone più in vista della città erano state invitate. La festa esprimeva pienamente la ricchezza ed il gusto raffinato del padrone di casa, pietanze gustose e ricercate colmavano i piatti di tutti i presenti, il vino scorreva in grandi quantità e ottimi musicisti accompagnavano il banchetto. La serata era quasi al termine quando Mòrondel venne avvicinato da una anziano signore vestito con una lunga tunica celeste, stretta intorno alla vita da una cintura finemente ricamata e intarsiata di piccole gemme azzurre. I suoi occhi profondi più del cielo scintillavano sotto le sopracciglia scure e lo sguardo emanava un fiero calore. "Salve Mòrondel, permettemi di presentarmi. Il mio nome è Alatar, sono un pellegrino venuto a Pelargir per trovare Mirethàl il mercante, un mio vecchio amico. Mirethàl era stato invitato a questa bellissima festa e ha insistito affinché lo accompagnassi, spero la cosa non ti dispiaccia". La sua voce era calda e vellutata, nascondeva quasi le ruvide note tipiche di una età avanzata quanto quella che Alatar mostrava. Mòrondel rimase colpito e affascinato dalla presenza dell'ospite inatteso, ma senza batter ciglio accolse il viandante con indifferenza. "Assolutamente, un amico di Mirethàl è mio gradito ospite, oggi e tutte le volte che potrà passare per Pelargir. Hai assaggiato il vino a disposizione dei commensali ?".
Le parole si smorzarono lentamente nella bocca di Mòrondel quando l'elfo notò la curiosità con la quale il vecchio fissava il suo amuleto. Paura e gelosia si insidiarono rapide come frecce avvelenate nel duro cuore dell'elfo, e d'istinto si allontanò di un passo da Alatar.
"Grazioso quell'amuleto" - disse con eleganza mentre si avvicinava a Mòrondel per recuperare la distanza - "Ho sentito strane voci sul conto di quella pietra, i suoi poteri e le sue origini. E ovviamente anche sulle tue origini...". Alatar fissava l'amuleto con interesse, ma quando incrociò lo sguardo di Mòrondel i suoi occhi rivelarono la potenza e la saggezza nascosta nel suo essere profondo. L'elfo era come paralizzato, incapace di parlare e reagire, ascoltava l'anziano viandante completamente succube delle sue parole e dei suoi gesti. "Ascoltami Mòrondel, quello che sto per dirti un giorno sarà di vitale importanza per la Terra di Mezzo. Tu eri un elfo, e non hai ancora perso tutte le caratteristiche della tua stirpe: questa scheggia di Palantìr è opera di Feanor, quindi solo un elfo è in grado di manipolarne il potere. Hai perso la bellezza del popolo fatato, i loro movimenti aggraziati e la loro longevità. Forse non te ne sei accorto, ma da quanto hai incastonato la pietra la tua salute si è fatta più cagionevole, e le tue membra sono diventate sensibili allo scorrere del tempo. Sei invecchiato in questi ultimi due anni Mòrondel, non lo vuoi ammettere ma è così".
Alatar parlava sottovoce, ma le parole vibravano gravi e potenti come il tuono di una tempesta lontana in una giornata estiva.
"Solo la tua voce è rimasta, dono degli elfi." - riprese con vigore Alatar - "Questa è l'unica prova che Càlandel non è completamente sconfitto, e che una minuscola scintilla elfica illumina ancora la tua anima diventata ormai mortale. Finché questa gemma di luce brillerà in te il Palantìr ti concederà di usufruire dei suoi poteri. Ma fa attenzione. Il giorno che smarrirai questa tua ultima caratteristica e il gelido freddo della corruzione spegnerà l'esile fiammella, il Palantìr diverrà una pietra inutile e fallace nelle tue mani".
Mòrondel subì il discorso passivamente, stringendo i pugni per la rabbia e la paura, teso in piedi in un angolo della sala. Cercò dentro di sé la forza di reagire, di rispondere a tono a quella minacciosa profezia, ma dovette faticare a lungo prima di riuscire a proferire verbo. Era troppo tardi, Alatar era scomparso tra gli altri invitati, e nella confusione della festa Mòrondel non riusciva a vederlo. Scosso per le intense affermazioni del vecchio, Mòrondel lo fece cercare invano per tutto il palazzo, ma Alatar non venne più rivisto a Pelargir, né quella notte né nei mesi successivi.

Nell'inverno tra il 3018 e 3019 Mòrondel concentrò il potere dell'amuleto nella ricerca degli altri Palantìri. Le Pietre di Feanor erano lontane, molto più distanti delle capacità percettive dell'elfo, ma la magia in esse racchiusa era così intensa che Mòrondel riuscì ad individuarne approssimativamente la posizione. Trovare gli altri Palantìri avrebbe aumentato senza limiti il potere di Mòrondel, e la Terra di Mezzo non avrebbe più avuto segreti per lui. Le parole di Alatar erano state dimenticate, a fatica e con molta rabbia, ma alla fine la mente orgogliosa dell'elfo le aveva soffocate sotto il manto della propria ambizione.
Le sue ricerche portarono presto a conclusioni inaspettate e interessanti.
Uno dei Palantìri si trovava nei pressi di Minas Tirith, e dopo qualche viaggio Mòrondel ebbe modo di verificare che era nelle mani di Denethor.
Sugli altri ottenne solo poche informazioni imprecise. Pareva che uno fosse stato smarrito nella zona di Lago Vesproscuro, un altro vicino a Colle Vento. Ma la distanza di questi luoghi da Pelargir rendevano fortemente incerte queste scoperte, e nonostante il grande potere delle sette Pietre, quelle troppo lontane venivano a malapena percepite da Mòrondel. Nei primi mesi del 3019 l'elfo individuò prima il Palantir custodito da Saruman ad Orthanc, poi quello nella mani di Sauron.
Il terrore nell'avvertire tramite l'amuleto la presenza dell'Oscuro Signore sconvolse la mente di Mòrondel per molti giorni, tanto che alla fine l'elfo decise che mai più avrebbe tentato di sondare con l'amuleto le terre di Mordor. Ma ancora una volta era troppo tardi.

Il 6 febbraio dello stesso anno Mòrondel era immerso nelle sue ricerche, e stava arrivando a scoprire il destino dell'ultimo dei Palantìr. Fuori il cielo era scuro e nuvoloso, una strana calma dei venti rendeva spettrale l'aria di Pelargir.
Mòrondel era concentrato sull'amuleto, immagini dell'ultimo dei Palantìr stavano iniziando ad affiorare nella sua mente tesa per lo sforzo.
Percepiva i Colli Torrioni, la zona del Golfo di Luhn e la catena montuosa degli Emyn Beraid, ma non riusciva a comprendere con esattezza dove si trovava l'ultima delle Pietre di Feanor. All'improvviso una paura totale s'impadronì della sua mente, i suoi pensieri sprofondarono nell'abisso del terrore ed urlò per lo spavento. Era stato un incosciente nel continuare ad usare l'amuleto dopo essere entrato in contatto con il Palantìr di Sauron. L'Oscuro Signore aveva percepito la presenza di Mòrondel, e aveva usato la propria Pietra per rintracciare la posizione dell'amuleto.
Una Bestia Alata era atterrata sul terrazzo della camera ove si trovava Mòrondel, nella sua ricca casa appena fuori da Pelargir.
Un alone di orrore e malvagità lo imprigionava, impedendogli di muovere anche un solo dito o di chiamare aiuto mentre il Nazgul smontava dalla propria cavalcatura e si avvicinava alla magnifica vetrata decorata in oro e argento. Nel giro di pochi istanti le schegge inondarono la sua camera, il mostro avanzò verso di lui e lo rapì. Le corde con cui fu legato sul dorso della Bestia Alata soffocarono rapidamente i suoi sensi, e Mòrondel perdette coscienza quando il viaggio verso Mordor era appena iniziato.Ma quel primo violento incontro con la Bestia Alata rimase indelebilmente impresso nella sua mente, tornando a galla tutte le volte che l'elfo si ritrovava costretto a cavalcare nuovamente quelle orribili creature.

* * *

Gli orchetti della Guardia Speciale si fermarono ai lati dell'apertura dietro la quale si intravedevano le sagome scure delle Bestie Alate. Il Nazgul stava terminando di preparare la sua cavalcatura volante dando le spalle all'entrata, così non si accorse subito della presenza di Mòrondel che ne approfittò per prendere fiato e cercare il coraggio di muovere i prossimi passi. La grossa stanza svolgeva il ruolo di stalla per le Bestie Alate, molte luride nicchie erano state ricavate per permettere l'alloggiamento delle terribili creature, qualche gigantesca apertura collegava la stalla con il terrazzo dove le bestie usavano prendere il volo, e nell'eterna penombra di Barad-Dur quella debole illuminazione fu sufficiente ad abbagliare Mòrondel per qualche breve istante.
I suoi occhi si erano appena abituati alla luce quando il Nazgul si voltò e lo vide. Con un basso grugnito fece cenno a Mòrondel di avvicinarsi e l'elfo ubbidì a quel comando, come se venisse trascinato da una forza irresistibile. Ogni volta che avvicinava una Bestia Alata la sua mente si assopiva, lo spazio e il tempo cessavano di esistere e lui perdeva il controllo delle proprie percezioni. Anche questa volta si risvegliò quando stavano già solcando i neri cieli di Mordor, senza ricordare come era salito sulla Bestia Alata o il momento in cui avevano spiccato il volo.
Terre brulle e desolate scorrevano silenti sotto di loro, l'aria fredda schiaffeggiava violentemente il suo volto nonostante la presenza della gigantesca figura del Nazgul davanti all'elfo. La tecnica di volo del mostro lo impressionava ogni volta. Possenti fasce muscolari si contraevano freneticamente con un ritmo infernale e le correnti d'aria gemevano sotto le robuste ali nel sostenere il terribile peso, ma alla fine l'animale sfrecciava nel cielo senza alcun rumore.

Sembravano passati pochi giorni da quando aveva cavalcato la Bestia Alata per la prima volta. Dopo essere stato rapito da Sauron e convinto a lavorare tra le sue fila, Mòrondel aveva ricevuto l'incarico di trovare l'Unico grazie ai poteri del suo amuleto. Il dieci febbraio, appena quattro giorni dopo il suo rapimento, gli era stato ordinato di sorvolare i dintorni di Dol Guldur nella speranza di percepire la presenza dell'Anello, e aveva così scoperto che esso si trovava a Lothlòrien. Saputa la notizia Sauron aveva esitato, non ancora convinto della fedeltà di Mòrondel e incerto sul da farsi. Un attacco a Lothlorien era rischioso, forse era una trappola organizzata dagli elfi. Il 17 febbraio Mòrondel era tornato a Barad-Dur, informando il suo nuovo Signore che l'Unico aveva lasciato il Bosco d'oro e si era diretto a sud, lungo l'Anduin. Sauron si era mosso di conseguenza, ma sempre dubitando delle parole dell'elfo e quindi non impegnando grandi forze in questi movimenti.
Una decina di giorni dopo Mòrondel cavalcò la Bestia Alata per la terza volta, con l'ordine di sorvolare l'Entalluvio e tener d'occhio gli spostamenti dell'Unico. Purtroppo questa ricerca non portò a nulla, l'Anello non si trovava in quelle zone. Ma durante i lunghi voli sopra la foresta di Fangorn stringendo l'amuleto tra le dita e concentrandosi sulla presenza dell'Unico, Mòrondel avvertì la presenza di qualcos'altro di significativo. Provò a pensare a tesori, a persone scomparse o famose, ed alla fine comprese quello che aveva causato quelle minime vibrazioni nel suo amuleto. L'Erede d'Isildur camminava su quelle terre, con Andùril al proprio fianco. Mòrondel rientrò a Barad-Dur convinto di recare con sé notizie interessanti per l'Oscuro Signore, ma invece fu accolto con delusione e disprezzo, Sauron voleva l'Unico, era stanco dei tentennamenti dell'elfo, e appena apprese che invece di individuare l'Anello Mòrondel aveva percepito un inesistente erede al trono, la sua collera raggiunse il limite. Sicuro che l'elfo lo prendesse in giro, Sauron lo fece rinchiudere nelle cupe segrete della sua torre per oltre una settimana.

Durante questa prigionia l'elfo fece lucidamente il punto della situazione. A Pelargir aveva raggiunto il massimo potere possibile, adesso la sua unica possibilità di miglioramento era rappresentata da Sauron. L'Oscuro Sire era una presenza mostruosa e terrificante, la cui vicinanza bastava a far tremare ogni fibra del corpo di Mòrondel, ma questo andava sopportato ed accettato in cambio dell'enormi possibilità che Sauron poteva offrire. All'elfo era stato promesso il dominio su Lothlorien, sarebbe stato il re di quella stirpe che aveva rinnegato e che adesso odiava profondamente. Mòrondel avrebbe regnato su tutti gli elfi del Bosco d'oro, e questo era molto di più di quello a cui poteva aspirare a Pelargir. Questi pensieri lo tormentavano continuamente, doveva trovare il modo di riacquistare la fiducia di Sauron e uscire da quella cella. Non lo spaventava la prigionia, ma piuttosto il fatto che stava perdendo una favolosa occasione per mettere i propri poteri a disposizione della creatura più potente della Terra di Mezzo. Quando dopo una settimana si vide liberato e nuovamente ricevuto da Sauron, Mòrondel visse quindi uno dei momenti più felici della propria esistenza. L'Erede d'Isildur aveva rivelato la propria esistenza tramite il Palantìr, e questo aveva provato all'Oscuro Signore che Mòrondel non si era ingannato.
Ovviamente Sauron non aveva mai parlato di un proprio errore, ma l'evento era bastato a fargli comprendere che i poteri dell'amuleto facevano davvero onore alla fama di Mòrondel, e che l'elfo era un valido aiutante. Dopo neanche due giorni Sauron gli fece sorvolare i Monti Bianchi, nella speranza di individuare l'Erede d'Isildur e verificare se egli custodiva l'Unico, ma anche quella ricerca si rivelò inconcludente, con gran dispiacere da parte di Mòrondel, preoccupato di fallire e perdere nuovamente la fiducia del suo Signore.
Dopo quattro giorni la missione dell'elfo venne interrotta da Sauron stesso, gli ordinò di sospendere le ricerche, e recarsi a Minas Tirith affinchè potesse rendersi utile durante l'assedio alla città.
Fu così che Mòrondel affrontò Aragorn figlio di Arathorn sulla banchina dell'Harlond, e cadde sul campo di battaglia gravemente ferito alla gola dalla fiammeggiante Andùril. Il suo amuleto aveva previsto l'arrivo dell'Esercito dei Morti guidato dall'Erede d'Isildur, ma era stato troppo tardi e la battaglia si era conclusa con la vittoria del nemico.
Mòrondel era stato sospeso tra la vita e la morte per ben tre giorni, ricevendo le cure dagli orchetti di Barad-Dur. Sauron aveva ormai piena fiducia nell'elfo e nei poteri del suo amuleto, ed aveva dato ordine di salvarlo ad ogni costo e rimetterlo in piedi nel minor tempo possibile.
Così adesso, il 21 marzo del 3019, Mòrondel stava cavalcando per l'ennesima volta insieme ad un Nazgul nei cieli della Terra di mezzo, alla ricerca dell'Unico. Questa volta Sauron avrebbe ascoltato il suo responso e sferrato un attacco massiccio verso il portatore dell'Anello; la guerra era vinta e Mòrondel sarebbe diventato presto padrone di Lothlòrien.

* * *

In pochi minuti le Montagne dell'Ombra furono sotto di loro, scorrendo rapide come gli ultimi ricordi di Mòrondel. In lontananza si scorgeva la sottile striscia lucente dell'Anduin tagliare la Terra di Mezzo in due, e le rovine di Osgilliath erano una debole chiazza biancastra nei pressi del fiume. Era lì che Mòrondel aveva trovato la scheggia del Palantìr e che tutto aveva avuto inizio, ma ormai non doveva più smarrirsi nei meandri del passato, stavano per sorvolare Cirith Ungol e lui doveva trovare l'Unico per assicurarsi un futuro degno dei suoi poteri. Strinse forte la pietra tra le dita e si concentrò sull'Anello, facendo segno al Nazgul di aver iniziato la ricerca. Il cavaliere annuì freddamente, quindi entrò in una larga spirale discendente, toccando sia Minas Morgul che i confini dell'altopiano di Gorgoroth.
Mòrondel rimase concentrato a lungo e finalmente avvertì la debole presenza dell'Anello, ma non a Cirith Ungol, bensì più a nord. Informò il Nazgul della scoperta, e la Bestia Alata punto subito verso settentrione.
L'elfo era eccitato come mai gli era accaduto, finalmente avrebbe ottenuto dal proprio amuleto il massimo dei servigi: trovare l'Unico e regnare su Lothlòrien. Tornò a concentrarsi sulla propria missione, con l'amuleto che pulsava ritmicamente tra le sue dita, mentre stavano tornando in direzione di Barad-Dur. Probabilmente il possente guerriero che custodiva l'Unico era già entrato a Mordor e stava muovendosi verso Monte Fato, anche se la direzione appena percepita da Mòrondel non escludeva del tutto l'ipotesi che l'Anello fosse difeso dall'esercito che si dirigeva verso il Morannon.
Ma questo non era un problema, se non fosse riuscito a percepire l'Unico all'interno di Mordor, avrebbero fatto rotta sul Cancello Nero e sorvolato l'esercito nemico. Nulla poteva sfuggire al suo amuleto, tra pochi minuti lo avrebbe individuato senza possibilità di errori. Sauron avrebbe scagliato il suo attacco inarrestabile verso l'intruso o verso il Morannon, certo di recuperare così il suo agognato tesoro.
Un sottile ghigno si disegnò sul volto di Mòrondel, e nonostante la profonda ferita alla gola riuscì a ridere rumorosamente. Ne uscì un suono orribile, saturo di malvagità e di smisurata ambizione, ma questo non lo toccò minimamente: aveva percepito la posizione esatta dell'Anello.

Il possente portone borchiato si aprì mugolando un lamento funereo, e l'enorme salone si spalancò davanti a Mòrondel. Un manto d'oscurità sgorgò dalla stanza, come un nero inchiostro traboccante da un bicchiere troppo colmo. Il suo passo era incerto nell'avanzare verso il seggio dell'Oscuro Signore, ma lo sguardo era tornato ad essere fiero e risoluto, non temeva più quell'ombra scura in fondo al salone. Solo quando fu a pochi passi da Sauron il corpo di Mòrondel avvertì l'aura di potere schiacciante, il peso totale di quell'essere corrotto e spietato, la cui sola visione poteva uccidere una persona non preparata all'incontro. La sua forma eterea si alzò in piedi, mostrando una figura indecifrabile e misteriosa. Era impossibile valutarne le dimensioni e le fattezza, la statura stessa era indefinibile e la posizione degli arti poteva facilmente essere un'illusione, causata dal bisogno di riconoscere una struttura umana in quella visione. "Bene Mòrondel, vedo dal tuo volto soddisfatto che hai completato con successo la missione." - per la prima volta anche la voce di Sauron apparve capace di tradire la sfumatura di un'emozione - "Dimmi, dunque. Dove si trova l'Unico, il mio Anello ? Chi lo custodisce ?". Mòrondel deglutì a fatica sotto le bende che sigillavano la sua ferita, mentre scavava disperatamente nel profondo del proprio animo per trovare il coraggio di rispondere. Era felice e soddisfatto, sicuro del proprio successo ma terrorizzato dalla presenza di Sauron. "Abbiamo sorvolato tutta la zona tra Minas Morgul e Barad-Dur, poi il Morannon, ed alla fine l'ho trovato. Non ci sono dubbi, mio Signore, l'Unico si trova nella mani dell'esercito diretto verso il Morannon". Una risata assordante rimbombò in tutta la sala, spaventosa più del crollo di una montagna, terrificante come l'urlo della morte. La figura di Sauron si fece gigantesca, il suo essere vibrò violentemente e le pareti del salone tremarono per qualche istante. Mòrondel fece due o tre passi indietro, spaventato e confuso dalla reazione della creatura che aveva davanti. Poi Sauron riprese a parlare, con il tono profondo e lugubre di una notte senza stelle. "E' mio, finalmente l'Unico tornerà nella mie mani ! Il mio esercito distruggerà il nemico al Morannon e si impadronirà dell'Anello. Tu Mòrondel regnerai al mio fianco, insieme ai Nazgul, e Lothlòrien sarà il tuo feudo. Te lo sei meritato, fedele aiutante, ora ritirati pure nella tua stanza e attendi l'ora della vittoria".
Brividi di febbre percorrevano l'intero corpo dell'elfo, ebbro di soddisfazione per il proprio operato. Era riuscito a guadagnare la stima di Sauron, la creatura più potente della Terra di Mezzo, e ormai il suo dominio si sarebbe esteso e consolidato all'ombra dell'Oscuro Signore. Mòrondel si voltò, apprestandosi ad uscire dall'ampio salone, eccitato per gli eventi e ansioso di vedere i suoi nuovi alleati trionfare al Cancello Nero. Il portone si rinchiuse alle sue spalle, e l'elfo si diresse verso la propria nuova stanza, ancora più ricca e curata della precedente. Non aveva più bisogno della scorta, poteva girare liberamente per tutta Barad-Dur, gli orchetti lo salutavano con rispetto e qualcuno addirittura si inchinava al suo passaggio. Il momento del trionfo andava festeggiato e Mòrondel iniziò a cantare un brano inneggiante alla vittoria, lontano ricordo della sua vita tra gli elfi. Nulla. Dalla sua gola ferita non uscivano più le dolci note che lo avevano accompagnato fin'ora, non poteva più cantare. "Non importa" - pensò soddisfatto - "ormai sono il re di Lothlòrien, i miei servitori canteranno per me tutte le volte che ne avrò voglia". Se solo l'elfo si fosse ricordato della profezia di Alatar, avrebbe capito che nella battaglia dei Campi del Pelennor aveva perso la sua magnifica voce elfica, e che oramai era diventato umano a tutti gli effetti. Invece Mòrondel non ricordò mai le parole di Alatar, neanche quando il soffitto di Barad-Dur iniziò a tremare e la torre crollò rovinosamente, seppellendolo assieme alla scheggia del Palantìr, ormai diventata un ingannevole sasso tra le sua dita umane.



Appendice

Anno 2941: Battaglia 5 eserciti --> perde la memoria.
Anno 2958: Parte per Pelargir; passa per Lothlorien.
Anno 2959: Arrivo a Pelargir --> ritrova la memoria.
Anno 2961: Malattia del padre; inizia ad invidiare gli uomini.
Anno 2962: Si ribattezza Morondel ; ascesa al successo.
Anno 2963: Morte del padre Narkal.
Anno 2993: Inizia a studiare scienza e magia.
Anno 3002: Viaggi ad Osgilliath per trovare il Palantir.
Anno 3014: Ritrova una scheggia del Palantir.
Anno 3015: Studia la scheggia.
Anno 3016: Forgia l'amuleto e ottiene nuovi poteri.
Anno 3018: Incontro con Alatar e profezia.

Anno 3019:

6 febbraio: Scoperto da Sauron e rapito da un Nazgul alato.
10 febbraio: Portato a Dol Guldur per cercare l'anello.
17 febbraio: Avvisa Sauron della partenza dell'anello.
27 febbraio: Portato in volo sull'Entalluvio riferisce che non c'é l'anello, ma c'é Isildur. Sauron non gli crede e lo fa incarcerare a Barad-Dur.
8 marzo: Sauron scopre nel Palantir l'esistenza di Aragorn, così fa scarcerare Morondel.
10 marzo: Sauron manda Morondel sopra i Monti Bianchi per cercare Aragorn e vedere se ha l'anello. Girano a vuoto per giorni, ma non cercano verso sud.
14 marzo: Interrotta la ricerca di Isildur per partecipare all'assedio di Gondor.
15 marzo: Morondel comanda le retrovie della battaglia prevedendo inutilmente l'arrivo di Aragorn.
18 marzo: Riprende i sensi a Barad-Dur.
20 marzo: Primo dialogo con Sauron.
21 marzo: Vola con il Nazgul sul Morannon e su Cirith Ungor.
22 marzo: Secondo dialogo con Sauron, il quale fa partire l'esercito a nord. La sera prova a cantare invano, non ricordando le parole di Alatar.
25 marzo: Muore con Sauron a Barad-Dur.