La matrioska delle realtà

Ottobre 2009


Davanti a me, trafitti dai raggi lunari, degli umani sbigottiti mi fissano come se non avessero mai visto un elfo in vita loro. Lascio che stupore e meraviglia distraggano le loro menti, regalandomi istanti preziosi. Mi hanno sorpreso lungo un sentiero senza uscita, chiuso alle mie spalle da un gigantesco fungo bianco, alto più di cinque metri. Alla mia sinistra il precipizio roccioso del Monte Grande, a destra la macchia scura del bosco, preambolo di una discesa ripida ed incerta, talmente scoscesa che servirebbero un buon bastone e la luce del giorno solamente per sporgersi a guardare. Putroppo è notte, la luna si riflette sulla cappella del fungo gigante, irradiando caldi strali argentati sui pochi metri posti tra me e gli umani.

In realtà il fungo è un radar meteorologico, io indosso un costume elfico fatto in casa e loro non vedevano l'ora di trovarmi. In realtà... ma quale realtà? E' solo un gioco ed io non sono un elfo, eppure sono davvero qui, di notte, sui Colli Euganei, con trenta persone che mi danno la caccia.
Il mio compito è quello di non farmi prendere ma farmi vedere da tutti, affinchè tutti possano provarci, a prendermi. Trasalendo energia fatata entro nella parte e ricordo che gli elfi hanno il dono dell'infravisione, in parole povere ci vedono al buio. Senza dare il tempo al censore interiore di suonare l'allarme "follia in corso" mi tuffo nell'oceano di alberi catramati d'argento. Rimango in piedi per miracolo, precipitando a rotta di collo giù per il pendio scosceso, schivando alberi invisibili e bassi rami insidiosi. Un umano prova a seguirmi, si graffia dopo due passi e impreca.
- Ma è pazzo?
Sparisco nella notte saltellando a casaccio di qua e di là, senza vedere ad un palmo dal naso e senza chiedermi come faccio a schivare gli alberi. Eppure gli schivo, magicamente, tutti.

Dopo tredici anni ricordo ancora quella fuga spericolata nel bosco. Sentivo gli alberi, letteralmente. Non so quante volte ho chinato il capo, d'istinto, appena in tempo per farmi carezzare la nuca dalle fronde aguzze. Quante volte ho saltato alla cieca, nel vuoto, scavalcando sassi e radici sporgenti. C'era la luna piena, è vero, ma le torce elettriche dei cacciatori d'elfi avevano serrato la mia pupilla a mò d'ostrica. Servirono parecchi minuti, terminata la fuga, per riabituare la vista al debole chiarore lunare. Solo allora vidi l'erta discesa fitta di alberi, dalla quale ero appena sceso, e capii cos'era successo. Non voglio parlare né di magia né di suggestione, preferisco un argomento molto più importante, madre di ogni paura e padre di ogni domanda.

Cos'è la realtà?

Questione spinosa, causa di tutte le incomprensioni, eterno motivo di discussione. Solamente un pazzo potrebbe pensare che esista una risposta unica, assoluta, comunicabile.
A tal proposito il Manuale d'Uscita della Matrice recita:

La matrioska delle Realtà

Esistono infinite realtà. Ne esiste (almeno) una per ogni punto di vista, istante d'osservazione e stato dell'osservatore: tali realtà possono essere pensate coincidere con le diverse realtà soggettive. Alcune realtà sono più importanti delle altre, poiché costituiscono condizione necessaria alla diverse realtà in esse contenute. Anche se non è possibile definire o discutere la realtà assoluta, è sempre possibile identificare quale realtà funge da contenitore e quale da contenuto.

Traduzione: tutte le realtà soggettive hanno la stessa dignità, poiché nessuna realtà vissuta è virtuale; se preferite, non esistono solo bianco o nero, perché ogni realtà possiede una componente reale (l'esperienza stessa) e una componente virtuale (l'interpretazione dell'esperienza). Nell'istante in cui guardiamo un quadro, leggiamo un libro, giochiamo a Monopoli o facciamo all'amore noi viviamo un'esperienza reale, siamo costruttori di realtà. Le esperienze sono sempre vere, per definizione. Se così non fosse gli incubi non ci spaventerebbero, i film non ci emozionerebbero, i libri non ci insegnerebbero nulla e le menzogne non ci farebbero piangere. Diciamo che una lettera è reale perché si può toccare, annusare, è vergata dalla mano di una persona vera, in carne in ossa. La povera e-mail, invece, ci appare virtuale. Eppure possiamo annusare il calore del monitor, toccare il vetro tremante dello schermo, pensare alle dita, fatte di carne, che hanno digitato quei simboli.
Suonato una tastiera anziché inpugnato una penna. Dov'è la differenza?

Se internet è virtuale, allora lo sono anche i nostri soldi in banca, le immagini stampate sulle fotografie, gli acquerelli di nature morte e le canzoni nascoste nei solchi di un vinile. Se andassimo tutti a prelevare i nostri risparmi, lo stesso giorno, non ci sarebbero banconote per tutti. Le ricchezze sono virtuali, i defunti sono morti e sepolti, le fotografie dei cari sul comò sono nitrato d'argento scolpito dalla luce, ectoplasmi cartacei di persone inesistenti. I pigmenti dei colori sono forse reali, ma l'immagine nel quadro sicuramente non lo è. Senza un lettore CD la musica non suona, se ne stà rintanata nei forellini di plastica del disco lucente, esattamente come una e-mail scolpita nel cobalto del vostro disco rigido. Sto parlando di essenza, non di bellezza. Una missiva cartacea è quasi sempre più seducente, ma non più vera: alla materia, del nostro significato attribuito, non gliene frega un bel niente.

M'immagino due elettroni che viaggiano lungo un cavo del telefono, sotto il letto fangoso di un fiume, dove l'umidità regna sovrana e il buio le lascia spazio, stizzoso.
Così, per passare il tempo, uno dei due elettroni dice all'altro:
- Ciao, tu cosa trasporti?
- L'onda di un brano voce.
- Cioè?
- Il minuscolo, piccolissimo, infinitesimo ma non trascurabile frammento di una lettera A.
- Lettera o suono?
- Suono vocale. Quando arriverò a destinazione mi tufferò in un magnete, assieme ad altri miliardi di elettroni, e tutti assieme faremo suonare il suono della vocale A nella cornetta.
- Solo una vocale?
- Beh, no. Dietro di noi ci sono una valangata di elettroni con altri frammenti, note, squilli accenti e suoni di ogni genere. Messi assieme, nel tempo, faremo vibrare l'aria e toccheremo un timpano umano, echeggiando qualcosa come amore, arrivo, adesso, aspettani.
- Oppure arrivederci, addio, addolarato, abbandono.
- Già. E tu cosa trasporti?
- Io? Hem... mi vergogno un po' a dirlo.
- Dai, un segnale elettrico è un segnale elettrico, non importa quale sia il suo colore, razza, religione o informazione che trasporta.
- Sei sicuro?
- Certo! Viaggiamo lungo lo stesso cavo alla stessa velocità, con la stessa massa, la stessa carica; siamo indistinguibili persino agli occhi di Dio.
- Ok, te lo dico... ma non ridere.
- Va bene.
- Promesso?
- Promesso.
- Io trasporto il frammeno di un lampo di magia di un videogioco via internet.
- Cosa?
- Già. Quando arriverò a destinazione mi tufferò in un cristallo liquido, assieme ad altri miliardi di elettroni, sprigioneremo un pulviscolo di luce da un monitor LCD e colpiremo una pupilla umana generando stupore e meraviglia.
- Ah... capisco.
- Capisco cosa?
- Non sei reale, ecco perché ti vergogni. Tu produci una realtà virtuale, quindi, dal punto di vista umano, non esisti. Non sei vero.
- ...
- Posso farti una domanda?
- Spara.
- Come ci sente, a non esistere?

La macchia d'argento lunare sorride complice nel cielo, facendo scintillare perle di resina e rugiada.
A guardar bene non è rugiada, ma sudore gocciolato dalla fronte, dopo la corsa. Non può esserci rugiada in una calda notte estiva, così come non ci sono elfi sui Colli Euganeii. Eppure mi sento bene, a non esistere. Lassù, in cima alla scarpata, le torce elettriche dei cacciatori setacciano il buio, fameliche come gli occhi di una bestia selvaggia. Sorrido estasiato mentre realizzo il miracolo. Sono sceso davvero attraverso il bosco, schivando gli alberi, alla maniera degli Jedi.
- Usa la forza, Luke.
Cazzate? Avevo sempre pensato di sì, ma evidentemente mi sbagliavo. Sarà finzione, un gioco per eterni Peter Pan, eppure gli alberi li ho sentiti davvero, uno per uno. Potenza della suggestione? Percezione extra-sensoriale? No, l'esperienza è stata reale, diretta, banalmente e semplicemente vissuta come vera. Una realtà figlia d'una realtà più fondante, nella gerarchia delle matrioske, ma egualmente reale.
Carico d'energia fatata inizio a risalire la collina, annusando un sentiero nel buio. La fede nel sangue elfico è salita alle stelle, danza nelle aule di Valinor e s'inebria alla corte di Elbereth. Vedo nel buio, letteralmente. So che c'è un sentiero davanti a me, saranno cento o duecento metri, ne sento l'odore, il brusio all'infrarosso. Percepisco lo spazio vuoto tra gli alberi, l'aria ferma tra le fronde, la chiazza di luce che striscia rettilinea nella notte. Non ho preso acidi, mangiato funghi o fumato erba, semplicemente vedo perché credo di vedere.

Cinque minuti più tadi trovo il sentiero, esattamente come e dove previsto. Faccio due passi e mi congelo - tunf - ghiaccio rovente nelle vene - tonf - un rumore secco, lontano ma non troppo. Non è il solito gatto, uccello, volpe o coniglio, è qualcosa di grosso, sicuramente più grosso di un cinghiale. Con gli occhi della paura, spalancati nel buio, vedo orsi, mostri e creature lovecraftiane che strisciano nella notte - tronc, toc, tonf - passi, passi pesanti, zampe o piedi che calpestano e rompono e spezzano grossi rami di legna, lungo il sentiero, cento metri sotto di me. La ragione, fioco lumino smarrito nelle tenebre, lentamente si fa strada, trovando l'unica risposta razionale a quel rumore che si avvicina.
Un essere umano, adulto, che risale il sentiero.

Il regolamento della Caccia all'Elfo obbliga i partecipanti ad usare le torce elettriche, regola pensata per aiutare l'elfo a trovare i cacciatori, avvicinarsi al buio e farsi intravedere, più o meno magicamente. Negli anni la regola andò soddisfando anche altre esigenze: sicurezza, coreografia, longevità cardiaca degli elfi. Ma quella sera l'equazione "giocatore uguale torcia elettrica" era stata infranta, lasciando al suo posto un'enorme, dolorosa, spaventevole soluzione.
Un pazzo, un maniaco, probabilmente armato.
E' ormai vicino, saranno cinquanta metri, anche meno. Se mi muovo, faccio rumore, non resta che accucciarsi e tentare l'imitazione del macigno sul ciglio del sentiero. Provate. Si esce di notte nel bosco, con la luna piena, si prendono dieci passi di distanza, ciao mi vedi, sono qui, guarda mi inginocchio, chino il capo, guardo a terra, resto fermo e zitto, scompaio. Divento invisibile.
Speriamo funzioni anche stavolta, è questione di vita o di morte. Respiro, i passi si avvicinano. Respiro più piano, venti metri. Espiro, vedo l'ombra che barcolla avanzando, tenebrosa e doppia, come una nera lingua biforcuta stagliata sul manto di mercurio. Quando arrivano a cinque metri capisco che sono in due.
- Zitta, deve essere vicino.
- Sicuro?
- Sì, l'avevo visto, era qui. Fai piano.
L'incantesimo dell'invisibilità comanda di mantenere lo sguardo inchiodato al terreno, io obbedisco, rispettoso della magia. Alzare gli occhi non servirebbe, ho già riconosciuto quella voce. E' la voce dell'anarchia, dello spirito selvaggio, gioia pura che infrange le regole, in primis quella che imporrebbe l'uso della torcia elettrica. Gigetto e fidanzata, così vicini che potrei allungare la mano, sfiorare uno scarponicino a caso, farli morire di spavento.
- E' sparito.
- Forse hai visto male.
- Mah... strano... avevo visto qualcosa, proprio qui, ne sono sicuro.
- E adesso?
- Adesso risaliamo, in silenzio. Forse si è nascosto nei paraggi.
Bisbigli nel buio ad un metro da me. Non sto esagerando, sono così vicini che potrei toccarli. Mi chiedo se fanno finta di non vedermi; il cuore batte all'impazzata, temo quasi che possano sentirlo tuonare nella notte, dentro il petto. Forse sono davvero invisibile.
(davvero?)
Solamente più tardi, al termine del gioco Gigetto confermerà di non avermi visto, anzi: sarò io a lasciarlo di sasso, riportando quel dialogo nel buio, tra lui e la sua fidanzata. Lui mi guarderà con occhi sgranati e dubbiosi, come un bimbo a cui racconti di Babbo Natale che scende giù per il camino, e poi mi farà la domanda più inutile dell'universo.
- E' la verità?

Perché parliamo della realtà? Perché per uscire dalla Matrice occorre innanzitutto definirne i confini, i margini di esistenza, capire dove inizia e dove finisce. E per riuscirci occorre comprendere la struttura della realtà, distinguere tra reale e virtuale, senza discriminazioni ontologiche. La realtà virtuale è una "realtà in potenza", contenuta nella nostra, ma comunque vera, concreta. Prendete Pacman, videogioco storico. Se Pacman muore io non muio, posso tranquillamente giocare un'altra partita. Al contrario, se morissi io, qui nella nostra realtà comune, non potrei più agire sui pulsanti del videogioco e Pacman mi seguerebbe a ruota nell'aldilà, a cavallo del Samsara. Io vivo nella matrioska esterna, Pacman in quella interna.
Prendiamo invece la realtà del pianeta Terra. Se io muoio, al pianeta non gliene frega un'emerita mazza. Ecco un caso di matrioska esterna alla nostra, più grande, più importante, che ci contiene tutti: la Terra, l'Universo, il Cosmo, Dio (se volete chiamarlo così). Rispetto all'universo, secondo la gerarchia delle matrioska, noi esseri umani siamo creature dotate di un'esistenza più o meno virtuale.

Se vi sembra assurdo è solo perché continuate a pensare alla parola "virtuale" come all'opposto di "reale". L'unica cosa importante, quando si parla di realtà, è capire l'ordine col quale sono incastrate tra di loro le scatolette cinesi. Quelle esterne sono più grandi e importanti, poiché contengono molte altre realtà al loro interno, e per questo le chiamiamo reali. Ma a forza di chiamare reale la nostra scatoletta, ci siamo illusi che essa sia l'unica esistente; e siccome ci crediamo con tutte le nostre forze, in molti casi abbiamo pure ragione. Così finiamo col credere che le realtà virtuali sono completamente finte, inesistenti.

Non preoccupatevi se la pensate diversamente, se non vi tornano i conti, se vi sembra d'assistere al delirio banalizzante di un pazzo. Sono passati tredici anni, da quella notte di luna piena, eppure io gli alberi visti al buio li ricordo ancora, e li ricordo bene. Le esperienze si possono raccontare, non trasmettere. Se vi piace credere che esista un'unica realtà, fate pure. Se poi ci riuscite, ancora meglio, avete la mia totale ammirazione e pure una puntarella di sana invidia.
Tanto, prima o poi, ci troveremo come al solito in mezzo al bosco, alle soglie del reame del sogno, dove confesserete le vostre paure piangendo calde lacrime argentate.
E lì sarà tutto vero, almeno fino al prossimo risveglio.

< Precedente    Inizio    Successivo >