Regole e Sicurezze

Ottobre 2014

Non è possibile informare senza operare una selezione delle fonti,
ovvero attribuire valore e significato alle nozioni.
Non esiste educazione senza condizionamento.
[K. Popper]

Titolo

Nel sogno c'erano due donne, sedute in una stanza di forma circolare, chiazzata da una leggera penombra elettrica. La prima, italiana, era una psicoterapeuta. Abito blu, viso pallido e magro, parlava tenendo in mano un libro. Il suo libro. L'altra, bionda e americana, ascoltava prendendo appunti.
- Dobbiamo insegnare le regole ai bambini affinché possano diventare uomini, imparare a far parte di una società, invece di restare nella loro onnipotente solitudine. Senza regole il bambino cresce fuori dalle convenzioni, dalle leggi e senza affetti. Perché anche l'amore ha le sue regole 1.
- Sono d'accordo.
- Allora converrà che le regole sociali hanno principalmente due funzioni.
- Dipende.
L'americana si alza in piedi, poggiando il blocco degli appunti su un basso tavolino di legno. Passeggia qualche istante per la stanza, calpestando macchie di luce arancione.
- Anch'io sono una psicologa, mi occupo di psicologia dello sviluppo. Voi terapeuti, invece, vi esprimente come se l'aspetto funzionale fosse l'unico punto di vista. Esistono numerose "funzioni" delle regole, e non è detto che quelle sociali siano le più importanti.
- Glielo concedo. Allora diciamo... che vorrei spiegare al signor Morfeo i benefici delle regole sociali... dal punto di vista della psicoterapia.
- D'accordo - rispondiamo all'unisono io e l'americana.
(ebbene sì, a questo punto mi sveglio nel sogno)
- Come dicevo, le regole sociali hanno almeno due funzioni. Innanzitutto mi proteggono dalle altre persone, quelle con cui condivido l'ambiente quotidiano: fratelli, compagni, amici, cittadini. Le regole mi proteggono da coloro che condividono con me l'accettazione delle stesse. Perché quando le persone condividono regole e valori diventano un gruppo sociale.
Breve pausa. Non oso fiatare, per timore di svegliarmi.
- Ma le regole ci proteggono anche da noi stessi. Quando un bambino scappa di casa pensa "se mi amano davvero verranno a cercarmi, anche se ho disubbidito", che significa più o meno "se infrango una regola, c'è sempre qualcuno che mi salva". Infrangiamo le regole per saggiare la bontà della rete di sicurezza, come un funambolo che si lascia cadere nel vuoto, di proposito. La regola, o meglio l'atto di infrangerla, è il collaudo delle nostre protezioni.
A questo punto mi alzo anch'io. E' un esigenza scenica. Faccio due passi verso la finestra, un ritaglio di notte cucito sul muro, fissando l'oscurità negli occhi. E mi dico che la rabbia degli italiani verso le istituzioni forse nasce dalla non credibilità dello Stato: poche punizioni solenni, greggi di capri espiatori e la certezza di farla franca, quasi sempre. Siamo l'esatto opposto di ciò che suggeriva il Beccaria. Se lo Stato non ci punisce quando sgarriamo, ci sentiamo orfani spaventati dalla troppa libertà, privati d'ogni sicurezza.

Quando insegnavo matematica, gli studenti volevano essere puniti, se colti in fallo. Se lasciavo perdere, se condonavo con leggerezza, leggevo la delusione nei loro volti. Se potevano farla franca loro, allora sarebbe restato impunito anche il bullo che li minacciava. Avevano bisogno del richiamo verbale, della nota sul registro, per verificare che l'autorità fosse presente, pronta a proteggerli.

Festa di compleanno

Nel sogno la voce dell'americana echeggia alle mie spalle.
- Ho eseguito un esperimento significativo, nel lontano 19842. I risultati hanno suggerito che un comportamento educato è una capacità difficile da sviluppare nei bambini più piccoli, che per natura fanno fatica a fingere le espressioni emotive. Siamo noi adulti ad insegnare ai bambini che, talvolta, è giusto ingannare il prossimo per rispettare le convenzioni sociali.
- L'ho sempre detto - l'eco della mia voce mi sorprende.
- Mi fa piacere, signor Morfeo. Allora le farà piacere conoscere i meccanismi coi quali trasmettiamo le regole, o per usare il suo linguaggio, i canali di somministrazione della Matrice.
- Esatto.
- Noi psicologi parliamo di apprendimento delle regole di espressione. Esistono almeno tre modi con cui il bambino apprende le convenzioni sociali...
- Se posso interrompere - anche l'italiana si alza in piedi - il suo approccio è incompleto...
- In che senso? - ribatte l'altra.
- I meccanismi di apprendimento sono interessanti, ma sono subordinati alle finalità delle competenze apprese. Perché disquisire sul come vengono imparate le regole, quando possiamo focalizzarci sul perché vengono apprese? Il motivo di una scelta è più importante delle modalità operative!
- Assurdo! I due aspetti sono inscindibili!
- Ma come! Non vorrà dirmi che...
A quel punto cambio sogno. Lungi da me l'idea di passare la notte con due donne che litigano davanti ai miei occhi, senza essere la causa della disputa. Di giorno sono schiavizzato da centinaia di regole: almeno di notte, quando sogno, comando io.

Un'ora dopo, guardando fuori dal finestrino, ripenso al sogno, al software che viene installato nella mente alla nascita, tramite lo spinotto connesso alla Matrice3.
Il primo programma si chiama unità di Addestramento: i bambini colgono le regole dalle frasi degli adulti, dirette e indirette. Esempio: "I bravi bambini non piangono davanti a tutti".
Il secondo programma si chiama unità di Imitazione: i bambini si adattano agli adulti, osservandone il comportamento per imparare qual è il modo "giusto" di comportarsi.
Il terzo programma è il più efficiente. E' l'unità di Apprendimento Contingente, quella che il bambino mette in pratica per convenienza personale. Il bambino capisce che ad ogni sua espressione gli adulti reagiscono con espressioni o comportamenti specifici. Ad esempio, se il bambino ha paura la madre reagisce con la tenerezza. Se il bambino è contento, la madre esprime felicità. Il bambino impara così a ripetere (fingere) certe espressioni per ottenere determinati risultati. Apprende le regole di comportamento sociale per trarne vantaggio. Impara che mentire è cosa buona e giusta.

Una delle contraddizioni più stridenti delle nostra società è la grottesca incoerenza di due valori portanti della Matrice: l'educazione e la sincerità. Mettiamo che vi invitano ad una festa a cui non volete andare. La persona ben educata rifiuterebbe con una scusa, come "vorrei ma non posso", "ho già un impegno" o "sono indisposto". Risposte gentili, bugie a fin di bene, direte voi. Menzogne aggraziate, dico io. Quando menti sei un ipocrita, punto e basta. Infatti quelli come me, che rispondono schiettamente "grazie, ma non mi interessa", passano per stronzi.
Non si può essere educati senza mentire, e non si può essere sinceri senza offendere.
Per effetto della pillola blu molte persone negano questa contraddizione, dicendo che esistono le vie di mezzo. Ma nascondere la verità, o abbellirla, significa sempre e comunque ingannare il prossimo. E lo dico senza esprimere giudizi, non sto disquisendo se sia meglio essere sinceri o ipocriti. Sto solo dicendo che la buona educazione è l'abito da sposa dell'ipocrisia. Bello ma falso.

Sulla vespa

Sin da piccini impariamo che per trarre vantaggio dalla società non serve rispettare le regole: basta non farsi beccare. Vediamo un caso reale. Quando avevo sedici anni mio padre ci vietò di andare in motorino. I miei fratelli, mostrando acume pratico, accettavano la paternale. Poi uscivano in bicicletta e, una volta lontani da casa, salivano di nascosto sul motorino dell'amico. Io invece m'imbarcavo in brancaleontiche crociate, ovvero grottesche discussioni con mio padre (se permettete il neologismo boccaccésco), evidenziando scarsa intelligenza e nessun adattamento piagetiano. Loro tornavo a casa sul cavallo a motore, io da solo, pedalando come un coglione. Loro facevano amicizie, io segoni.
- Ma è una contraddizione, Morfero. Hai detto che il rispetto delle regole reca vantaggio...

L'ho detto, è vero, ma le regole dipendono dal contesto sociale. In casa la regola era "non andare in motorino". I miei fratelli la rispettavano (a parole) e per questo campavano sereni, mentre io la infrangevo (a parole) scatenando i fulmini paterni. Fuori di casa accadeva l'esatto opposto.
Sono sempre stato spinto da questa bizzarra sorta di masochismo, una pulsione che m'allontanava da ogni schema, familiare e sociale. Fuori da tutte le Matrici, piccole o grandi.

Siamo tutti un po' ribelli e ci piace farla fuori dal secchio, di tanto in tanto. Ciascuno di noi è un asino di Buridano legato a due elastici . Il primo elastico è il bisogno di sicurezza, che ci spinge a far parte del branco e rispettarne le regole, almeno formalmente. Il secondo elastico è il bisogno di libertà, la forza seducente della ribellione e dell'indipendenza. Le persone sane, quando eccedono da un lato, accorciando troppo un elastico, dopo un po' si lasciano riportare al centro dall'altro, sfruttandone la tensione meccanica. Sei stanco della solita routine? Molli tutto e ti dai alla macchia. Ma solo per un po'. Quando l'instabilità (solitudine?) ti stufa, rimetti radici e ritrovi la tua sicurezza. Sei stanco di fare il giramondo? Pianti le tende e ti metti a coltivare l'orticello. Ma solo per un po'. Quando la sicurezza (noia?) ti stufa, fai le valigie e ti rimetti in viaggio.

Rispettiamo le regole per sentici sicuri e le infrangiamo per sentirci liberi. Le regole sono il fossato del nostro maniero. Ciascuno di noi ha il suo ponte levatoio, da abbassare quando vogliamo stare nella Matrice e da alzare se vogliamo mangiare la marmellata di nascosto. A volte penso che la mia malattia sia una forma di idrofobia schizofrenica. Di notte, quando non c'è nessuno, nuoto nel fossato lodandone le chiare, fresche dolci acque. Di giorno, mentre tutti mi guardano, ci sputo dentro per denigrare il Sistema.
A.A.A. - cercasi disperatamente ponte levatoio in buono stato. Scambio con coppia di elastici in ottime condizioni, praticamente mai usati.

Come gli italiani, che perdono fiducia nello stato quando i delinquenti la fanno franca, forse io ho perso fiducia nelle regole durante l'infanzia. Forse avrei dovuto fare come i miei fratelli, rispettare le regole in famiglia e fare il furbo fuori casa. Invece mi ostinavo a fare il bravo e credere invano nella meritocrazia, restando perennemente deluso. Così, forse, sono cresciuto sfiduciato nel sistema.
Ma questa conclusione è una favola, un effetto della pillola blu. Con l'ultima pillola rossa ho capito che si trattava di un puerile approccio vittimista, un modo per scaricare sugli altri la responsabilità dei miei difetti. La verità, come sempre, è molto più scomoda.

Coi compagni di classe

Avevo otto anni. In televisione davano il cartone animato del Giro del mondo in ottanta giorni. Assieme agli altri bambini, appassionati dalle invenzioni di Fogg e Passepartout, partii per il nostro giro del mondo. Una sorta di telenovela di gruppo, recitata a canovaccio nel giardino di casa, armati di atlante e fantasia. Andavamo in onda tutti i giorni alle cinque di pomeriggio. Le altalene erano ponti tibetani sullo stretto di Sicilia, la discarica il deserto del Sahara, il frutteto le verdi terre di Babilonia. Appena passato l'Himalaya, poco prima di scendere nella pianura cinese, gli altri bambini si stancarono e vollero cambiare gioco. Io rimasi scandalizzato. Come si poteva uccidere un sogno chimerico? Senza di noi, senza la nostra finzione, quell'avventura avrebbe cessato di esistere, come il regno di Fantàsia privato di Bastian. Davanti a me si pose una scelta. Abbandonare Fogg in Tibet, rinunciando alla traversata della Cina, o seguire gli altri bambini nel nuovo gioco? Non ci pensai un attimo, salutai cortesemente il branco e ripresi a tracciare percorsi immaginari tra l'atlante e il giardino di casa, solo con la mia immaginazione.
Quello fu il mio primo e unico giro del mondo in solitaria.

Freud, Berne e compagnia bella hanno ragione, le dinamiche del rapporto uomo-società mimano il rapporto figlio-padre, ma le origini della mia malattia sembrano affondare in un passato più remoto. Non è solo questione di regole infrante e mancato accomodamento piagetiano. L'episodio del "Giro del mondo in ottanta giorni" suggerisce che sin da bambino preferivo vivere nel mio mondo interiore, come un Piccolo Principe, piuttosto che scendere a patti e accettare le regole del branco. Era una ribellione innata, lo vedo anche in mia figlia, che ormai ha sette anni. Piuttosto che scendere sotto casa con gli altri bambini, sottomettendosi alle regole del gruppo, preferisce restare in camera a giocare da sola. Sta seguendo il mio stesso percorso, eppure non ha né un padre autoritario, né fratelli che la fanno sempre franca. Ciò suggerisce che mia sfiducia nel sistema non sia dovuta all'ambiente familiare, ma sia piuttosto innata. Ho un fottuto bisogno di distinguermi dal branco, di prendere le distanze e restare solo.

Abbiamo dato un nome ad ogni anello che ci lega alla Matrice. Le manette attorno ai polsi si chiamano lavoro, otto ore al giorno e mutuo da pagare. Quelle attorno ai piedi si chiamano dovere, famiglia e onestà. Seguendo con gli occhi il lungo monile metallico leggiamo i nomi degli anelli più lontani: educazione, ipocrisia, bisogno delle regole e paura di restare soli. Lontano, inchiodato nel muro, tra la muffa e le ragnatele, spicca l'anello portante, l'origine di tutti i legami. Il dannato-innato bisogno di appartenenza al branco.

Solo

Le persone sane rispettano le regole per rafforzare il legame col gruppo, perché il gruppo è identificato da un insieme di leggi, convenzioni e valori condivisi. Se non tifo la nazionale, se vivo di sushi e kebab, se non vado in chiesa e non denigro gli immigrati, non sono un vero italiano. Se non rispetto il Ramadam, se bevo alcolici e non m'interessa andare alla Mecca, almeno una volta nella vita, non sono un vero musulmano. E' inutile affermare d'appartenere ad un gruppo se poi ne infrangi le regole sotto gli occhi di tutti. E' meglio fingere di rispettarle, e poi infrangerle di nascosto. Dopotutto "furbo" e "intelligente" sono sinonimi, dal punto di vista di Piaget. E' una verità difficile da mandar giù, lo so bene, un po' come il connubio tra educazione e ipocrisia. Ma queste sono le regole del gioco, che vi piacciano o no.

A tal proposito: una delle caratteristiche del gioco è quello di essere un sistema di regole esplicito, dove uno o più partecipanti cercano di raggiungere uno scopo, con un confine che ben definisce la differenza tra "dentro il gioco" e "fuori dal gioco". In qualsiasi momento possiamo dire "non gioco più" ed abbandonare la partita, liberandoci dalle catene: le regole sono il giogo del gioco.
Ecco il significato dell'uscire dalla Matrice. Dentro la Matrice ci sta chi decide di stare al gioco, di rispettarne le regole e i valori condivisi, di dare importanza alle stesse cose e di lottare per gli stessi obiettivi. Fuori dalla Matrice vive chi ha detto "non gioco più" e vede gli altri come bimbi che sgobbano per comprarsi i balocchi. Il denaro, come le figurine dei calciatori, ha valore solo per chi ha continua a giocare. Fuori dalla Matrice soldi, carriera e mutuo da pagare diventano carte colorate, dadi, segnalini, pedine e pedoni.

La Matrice è il gioco più diffuso sul pianeta, talmente condiviso da confondersi con la realtà, pur restando sempre e solo un gioco. La Matrice è la realtà virtuale più importante, la scatoletta più esterna nella gerarchia delle Matrioske. Eppure non è una realtà assoluta, perché l'umanità non riuscirà mai a mettersi d'accordo su quali siano i valori oggettivamente più importanti. Ogni presa di partito è un'infinita sorgente di discussioni, di faide e guerre. Alla fine della fiera, per l'ennesima volta, abbiamo scoperto di nuovo l'acqua calda: la Matrice coincide con la realtà oggettiva.

Delusi? Vi capisco. C'è però un particolare non trascurabile, che vorrei portare alle vostra attenzione. Dalla Matrice si può uscire, basta rifiutare i valori del branco.
Chi ha orecchi per intendere, intenda. Gli altri, in roulotte.


[1] Giuliana Ukmar - Se mi vuoi bene dimmi di no. Franco Angeli, 2003.

[2] Carolyn Saarni - An observational Study of Children's Attempt to Monitor Their Expressive Behaviour. Sonoma State University, 1984.

[3] H. Rudolph Schaffer (2005), Psicologia dello Sviluppo, Edizioni Cortina, Milano.