Fuori moda

Aprile 2010


Il canale corre fuori dal finestrino. Macchie di papaveri e pioggia, come un anno fa. Anelli d'acqua si rincorrono sulla superficie del fiumiciattolo, come steli di millefoglie lanciati dalla mano di un dio annoiato. Con uno scatto improvviso il corso d'acqua deraglia, vira a sinistra, cedendo il posto ai binari d'acciaio. Lunghi binari rettilinei, esempio perfetto di coerenza direzionale. Prendere una decisione e mantenerla, la retta via, costanza e spirito di sacrificio.
Sono rimpianti o rimorsi?
Lacrime o pioggia?
Andando sempre dritti, attraverso macerie lastricate di ortiche, si arriverà in un posto migliore, si deve arrivare in un posto migliore. Lo dicono i binari.
Milano Porta Garibaldi.
Così nascono i dubbi. Guardando fuori dal finestrino del treno, mescolando lo zucchero nel caffè, fermi in coda al semaforo rosso. I rigagnoli del passato tornano a galla, si gonfiano di ricordi e straripano nel cuore fradicio, affogando nel marasma fluttuante delle possibilità. Rigagnoli, torrenti, fiumi in piena, sporchi e pieni di vita, altro che rigidi binari metallici sempre uguali a se stessi. Che saranno anche belli, sicuri e squadrati, ma sono già morti. Allora uno si aggrappa alla speranza della svolta, del binario che parta per la tangente. Qualsiasi cosa pur di non viaggiare in linea retta, verso la noia e la morte. Qualsiasi cosa pur di non tornare indietro, verso il grande fiume, dove ancora galleggia, pigramente, il cadavere di mio padre. Eppure c'è stato un tempo, anni fa, quando tutto era semplice, chiaro, limpido. Un tempo in cui i problemi erano mangiare, dormire e attraversare il bosco.

Facciamo che ero all' Hobbiton III, un anno dopo. Facciamo che eravamo sempre noi, ma si respirava un'aria diversa. Aria da revival, combriccola che si ritrova nella Terra di Mezzo. Circa gli stessi, invecchiati ma non troppo. Un anno e qualcosina. Qualcosina quanto? Ad essere precisi un anno, quattro mesi e venti giorni dopo la battaglia.
- Quale battaglia?
- Quella tra elfi e orchetti.
Facciamo che si attraversava il bosco, Granpasso davanti, il soldato di Dol Amroth secondo, la Strega per terza ed io in fondo, a chiudere la fila. Facciamo che vedevo tutti, proprio tutti gli attori della scena. Il bosco, maestoso sipario di foglie e fronde; Andúril, al fianco di Aragorn; la cotta del guerriero, riflettere scaglie di luce; i capelli crespi della Strega, mossi dal vento; il mio mantello, verde cornice svolazzante attorno al quadretto incantato.
Fu un attimo. Una cosa veloce e, in un certo senso, inevitabile. A forza di mettere maschere, togliere maschere, preparare costumi, studiare personaggi, calarsi nella parte, doveva succedere. Forse è normale, chi lo sa, dovrei chiederlo agli attori di teatro, quelli seri, per capire se capita anche a loro. Togliere una maschera di troppo e ritrovarsi nudi, di fronte a se stessi, allo specchio. C'è anche tutta una storia di imprinting poi, è vero, ma non è quello il punto. Il punto è che all'improvviso uno si toglie la maschera, quella che porta da una vita, e vede la verità.

La verità era che la Matrice non mi mancava.

La mia vita era cambiata, avevo chiuso con tante cose, molte cose. Niente più pizzate con gli amici, serate in birreria, risparmiare su tutto e sempre, guardare solo il prezzo al chilo, pane e fede, quattro wurstel al mese, viaggi in autostop, birra nascosta in tasca in discoteca, spesa in bicicletta, cinema di terza visione e qualche salame rubato al supermercato. Sotto il mantello elfico, poi, c'entrano da soli. Magia.
Era stato un anno di vera gioia. Ogni giorno, ogni santo giorno, era stato memorabile. Forse l'anno più bello della mia vita, selvaggio, naturale, senza pensieri, un godere ogni attimo e respiro. E, guarda tu che combinazione, era stato un anno di d'assoluta povertà, quasi miseria.
L'unico prezzo da pagare, obolo per il paese dei Balocchi, era la condivisione di nicchia della realtà minoritaria. Vivevo in un mondo favoloso, meglio di Ameliè, e come lei avevo pochissimi amici disposti a seguirmi nella tana del bianconiglio. Le minoranze di realtà sono assai poco frequentate. Ci vuole fantasia a chiamare vacanza tre giorni di pane, birra e qualche salame piovuto dal cielo, dormendo sulle brande dell'asilo abbandonato, lavorando come addetto elfico alla caccia al tesoro, con le scarpe di seconda mano bucate e i calzini bagnati fino al polpaccio per ascensione capillare. Eppure quella era, ai miei occhi, una vacanza.
Una vacanza fuori dalla Matrice.

Definizione di Matrice

La Matrice è l'insieme dei valori convenzionalmente accettati.
Tutto ciò che ha significato, senso, valore e importanza per la società, appartiene alla Matrice. Di contro, i valori di nicchia, le convenzioni accettate da pochi e le usanze non diffuse sono fuori dalla Matrice. I valori appartenenti alla Matrice costituiscono l'essenza stessa della Matrice e sono detti "realtà convenzionale" o "realtà matriciale". I valori estranei alla Matrice sono detti "minoranze di realtà" o "realtà non matriciali". Esse sono spesso un prodotto dei sognatori.
Esiste una legge naturale, epifenomeno del senso del branco e del timore degli estranei, in virtù della quale la Matrice deride, aggredisce ed ostacola l'esistenza delle minoranze di realtà. Si tratta di una legge utile e necessaria, che permette di operare una selezione all'interno delle minoranze di realtà stesse, affinché solamente le realtà più adatte a sopravvivere vengano accettate prima, riconosciute poi ed infine inglobate nella Matrice, che è per questo in continuo divenire.

E' tutta una faccenda di mode. D'una semplicità sconvolgente. Le vacanze sono di moda se vai in aereo, hotel, piscina, mare, montagna o centro commerciale. Non sono di moda se invece viaggi in autostop, dormi per strada, rubi per mangiare e scavalchi le recinzioni dei musei. La cosa bella, con le mode, è che quando una cosa è fuori moda è come se non esistesse. Infatti diciamo che non è una vacanza, quella. Non lo è neanche per sogno, e se io, Morfeo, ancora l'agogno nostalgico, allora sono fuori di testa, fuori di melone, fuori moda, fuori dalla Matrice.
Appunto.
E' un discorso banale, lo capiscono tutti, eppure non lo capisce nessuno. Diciamo che è ovvio, la realtà è una convenzione, dipendesse da me andrei in giro in mutande, sono contrario al matrimonio, ma sai, per far felici i nonni, un piccolo compromesso, ci sono delle regole da rispettare, so benissimo che è sbagliato, ma è solamente un battesimo, cosa vuoi che sia.
Eccola lì, la Matrice, bella come il sole, sotto gli occhi di tutti, intessuta di vergogna e repressione, ipocrisia e muggire d'armenti, mattoncino su mattoncino, regola sociale su regola sociale. Ci vergogniamo ad andare in giro con le scarpe rotte, ma non ci vergogniamo di indossare jeans lacerati ad hoc. Crediamo che il tal abito sia oggettivamente fuori moda, sia veramente di cattivo gusto. Dovremmo dire che non ci piace, che è molto originale, invece cerchiamo disperatamente il consenso altrui. Lo vedi quello? Lo vedi com'è vestito? Ma si può? E' o non è ridicolo? Oggettivamente ridicolo?
E' così che funziona. Costruiamo la Matrice per oggettivare le nostre emozioni, per trasformare il soggettivo in condiviso, il condiviso in adeguato, l'adeguato in oggettivo. Per essere parte del branco, approvati e riconosciuti. Impariamo a belare per non sentirci diversi, poi ridiamo di chi non bruca l'erba e infine ci lamentiamo perché ci tocca belare otto ore al giorno, per stare nel branco. Uscire dal branco è d'una facilità spaventosa. Nel senso che fa paura, davvero. Basta invertire il sistema di valori, negare tutti gli status symbol e inseguire i nostri sogni, quelli veri. Non esistono valori oggettivi, esistono solo mode, consuetudini, abitudini e convenzioni. Alcune mode durano mesi, altre secoli. I marinai portavano orecchini per pagarsi la traversata dell'Acheronte, o una degna sepoltura, dopo la morte. I pantaloni strappati, fino a vent'anni fa, erano indice di povertà. Se fosse di moda dormire perterra, vivere di stenti e viaggiare in autostop, saremmo disposti a firmare cambiali per un tozzo di pane e rideremmo di chi mangia caviale. Ci sarebbero agenzie di viaggio per finti autostoppisti. I ricchi dormirebbero sotto i ponti e la povera gente, di nascosto e con gran vergogna, sarebbe costretta a pernottare in alberghi a cinque stelle.
Non ci credete?
Andare a vedere i prezzi dei jeans trattati, degli alimenti ipocalorici, degli attrezzi da palestra e della frutta biologica. Poi chiedetevi quando vi costerebbe comprare abiti usati, saltare i pasti, fare la spesa a piedi e mangiare fiori di robinia.
Adesso ci credete?

Vivere nella Matrice è cosa buona e giusta.

Se poi ci state anche bene, allora siete sani di mente, mammiferi felici di vivere in branco, saggi consumatori dell'approvazione altrui e goderecci fruitori di pressoché inutili gingilli tecnologici. Indossate i pantaloni anziché la calzamaglia del settecento. Seguite le mode e non i bianconigli virtuali. Provate un sano senso del pudore e non la pazza gioia del bastian contrario. Credete che il vostro conto in banca sia reale, come le vostre ricchezze. Ridete (giustamente) di chi è rimasto fuori, per malattia o per scelta, e adesso vorrebbe scavalcare il cancello ma non ci riesce, perché nel frattempo si tappa il naso con le mani.
Certo, la faccenda suona un po' grottesca quando qualcuno, dentro la Matrice, va in giro dicendo che vorrebbe mollare tutto e aprire un baretto sulla spiaggia, di odiare il lunedì, di non capire perché si debba lavorare per vivere, o perché si debba vivere per lavorare. E' questa la cosa strana, con le mode. Tutti le seguono e, intanto, si lamentano perché devono seguirle. Un po' come stare nel branco per la paura di restare soli, ma ringhiare sottovoce per la mancanza di spazio.
Ci sono tanti vantaggi, a stare nella Matrice. Sarebbe meglio goderseli invece di lamentarsi.
Fuori è quasi sempre peggio.

Il bosco è umido, dopo la pioggia, ma di solito non è un dramma. Senti l'acqua bagnare le ginocchia, schizzare sulla fronte mentre sposti i rami, gocciolare di foglia in foglia al passaggio del vento. Avere l'acqua nella ossa è tutta un'altra storia. Sentirla entrare dalle scarpe rotte, quelle che ti ha passato Aetius il Giovane, stufo di rammendarle. Scarpe che tu, cocciutamente, hai riparato una volta di troppo, con spago da calzolaio, colla e pazienza certosina. Così eccoti lì, fiero Legolas Verdefoglia con le scarpe nere, come Iluvatar comanda, mentre l'acqua gonfia i calzini, consuma la pelle, penetra nelle ossa e arrugginisce il buon umore. Nel frattempo la gente arriva, pronuncia la parola d'ordine, io rispondo con l'indovinello. Loro ci pensano un attimo, a volte ci arrivano da soli, altre volte devo aiutarli (così recita il copione). Il tutto senza mollare un attimo la lanterna ad olio che sfrigola tra le dita bollenti. Potessi almeno avvicinarla ai calzini, asciugarli un poco, ma niente, non si può, questi arrivano a frotte uno dietro l'altro, maledetta caccia al tesoro, quest'anno volevo partecipare e invece eccomi ancora qui, fregato come al solito, ad essere protagonista anziché spettatore.
Com'è successo? Ah sì, il posto letto all'asilo nido, una questione d'amicizia, tutto gratis, però, tra amici, ci si aiuta. Tu sei socio Legolas, giusto? Tesserato, iscritto, abbonato e fedelissimo, vero? E i soci, si sa, all'Hobbitton danno una mano, specialmente quelli in abito elfico, specialmente durante la caccia al tesoro. Tu, poi, sei perfetto per la parte.

Per uscire dalla Matrice occorre prima uscire dal branco. Lasciate perdere il denaro, il lavoro e il fantomatico sistema. Bisogna innanzitutto, soprattutto e prima di ogni cosa fregarsene delle regole sociali, rifiutare i regali, arrangiarsi, non chiedere niente a nessuno. Oppure prendere a pieni mani tutto ciò che ti offrono, e poi mandarli a fanculo appena vengono a riscuotere. Perché la maggior parte delle persone, nella Matrice, ti fa i regali con la manina già pronta, dietro la schiena, aperta e assetata di aspettative. Io ti invito a cena, tu mi devi invitare a cena, altrimenti sei uno stronzo. Io ti faccio un favore, tu mi devi un favore, altrimenti sei uno stronzo. Io ti telefono, tu mi devi telefonare, altrimenti sei uno stronzo. Io ti faccio un regalo, per il compleanno, tu mi devi fare un regalo, altrimenti sei uno stronzo.
Funziona così? Funziona davvero così?
Benissimo, allora uscire dalla Matrice è facilissimo, basta fare gli stronzi.
Detta così pare un po' brutale, e forse sarebbe giusto accennare alle conseguenze, alla solitudine fuori della Matrice, ma questo genere di cose è meglio non dirle, quando si offre la pillola rossa, anzi. Meglio illudere la vittima fino in fondo, vantare la bellezza (solitaria) del mondo oltre lo specchio, le pianure deserte della libertà, l'antipatia delle folle. Cantare slogan accompagnati da fanfare con frasi ad effetto per indorare la pillola. Cose tipo meglio soli che male accompagnati, pochi amici ma buoni, chi fa da sé fa per tre, chi va solo va bene, alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli e, dulcis in fondo, esseri stronzi.


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