Vampiri

Febbraio 2010


- Jonah? Sei tu Jonah?
L'ombra fa un cenno col capo, è lui. Mai avrei pensato di gioirne tanto. Vedere Jonah al mio fianco, nella notte striata d'argento, mentre vaghiamo tra i cespugli sotto la luna. Jonah, mio infido avversario, anziano del clan Tremere, che in altre circostanze non avrebbe esitato a saltarmi al collo. Un morso per rapirmi l'anima, un sorso per rubarla, un sorriso per mutarmi in cenere.
Invece eccoci qua, non dico a braccetto, ma quasi. Pattugliamo il giardino della villa, quello sul retro, sperando di trovare due cadaveri ancora in vita. Ai comuni mortali parrebbe un ossimoro, ma per noi vampiri i cadaveri sono roba viva, spesso anche troppo.
E' una follia, la più grande follia della mia non esistenza. Ho affrontato la morte e l'abbraccio delle tenebre, abbandonata la luce del sole, vissuto nell'ombra succhiando sangue come un volgare parassita. Il tutto per rubare al destino una briciola d'immortalità, la speranza dell'eternità, la chance di raccogliere l'intero scibile umano in una mente sola. Volevo votare l'esistenza alla conoscenza, una crociera sempiterna nella sapienza. Ambivo all'onniscienza divina, incarnata nel corpo del demone che sono divenuto, e invece eccomi qua, a rischiare tutto per cercare i resti morenti dei Gemelli, affianco al mio peggior nemico, con quella Cosa là fuori.
La Cosa ha un fiuto animale, artigli affilati, zanne capaci di masticare acciaio e infliggere ferite più antiche del fuoco. La Cosa è mortale, ma assai più forte di me. La Cosa è un gigante alto tre metri, una macchina di muscoli infernali, una forza della natura votata alla distruzione della mia specie. La Cosa è un Lupo Mannaro e vuole uccidermi.
Guardo i cespugli, le foglie mosse appena dal vento dell'immaginazione. L'aria è ferma, glaciale, uno spettro di notte ci avvolge. Di solito mi piace, adoro guazzare nel buio e nell'odore della paura, ma stanotte è diverso. Stanotte non sono il cacciatore, sono la preda.
Rivedo il terrore stampato negli occhi di Ares, sento la sua voce tremante ancora nelle orecchie, ne rammento le parole impregnate di paura.
- Un Mannaro! Un Mannaro vi dico! L'avevamo convocato, per capire chi era, cosa voleva, ma ... non sapevamo cos'era! Un Mannaro! Se avessimo capito ... ha ... ha squartato i Gemelli, un lampo di luce e i Gemelli volavano, nel cielo, a brandelli. Io ... io sono ... io sono fuggito per miracolo, non chiedetemi come ... m'è parsa un'eternità.
Un sussulto nel buio mi trafigge il cuore, o quello che ne resta. Un cespuglio ondeggia sotto la luna, tremo muoio e vibro di terrore in uno solo respiro trattenuto, che mai inalerò.
Rumore di passi dietro me.
- Jonah? Sei tu?

Signore e signori, ecco a voi un sogno fattosi realtà. Non un sogno di quelli che si fanno di notte. La luna era vera, i cespugli erano veri, vera era pure l'ombra maestosa della villa che avvolgeva il giardino. Persino Jonah era una persona vera, in carne in ossa, in abito da sera dark casual, come me. Una partita a Vampiri, nulla più.
Una partita a cosa?
Vampiri. Un gioco di ruolo dal vivo, stile Caccia all'Elfo, ma un tantino più gotico. Un'esperienza totalizzante, praticamente vera, a volte fin troppo. C'era anche qualcosa di finto, ovviamente. La maschera del Lupo Mannaro, ad esempio, era di gomma. Bella, seria, spaventole ma di gomma. Lo stesso Mannaro era un giocatore, come me e Jonah, armato di carta e matita per affrontare gli eventuali combattimenti simulati.
Quindi tutto finto, tranquilizzatevi, i vampiri non esistono.
Lo sport, invece, gode di esistenza reale. Assume una realtà propria, concreta. C'è chi lo tocca, lo mangia, c'è persino chi se lo porta a letto (spero solo le veline). Nessuno sa perché, ma tutti gli altri giochi, tranne i giochi di ruolo, sono veri, reali. Deve esserci un qualche strano fenomeno psico-fisico-quantistico. Forse le configurazioni dei neuroni del cervello, durante una gara sportiva, assumono un'onda che rispetta le equazioni della Meccanica Quantistica. La configurazione dei neuroni del cervello invece, durante una partita di giochi di ruolo, è fittizia. O impossibile. O blasfema. Insomma sbagliata.
Lo conferma il fatto che tutte le altre esperienze virtuali, quelle approvate dalla Matrice, sono ritenute altamente reali. Le opere d'arte, le telefonate, i libri stampati, i film al cinema, gli album musicali, le leggi dello stato e gli scaglioni fiscali. Tutte entità prodotte dalla mente umana, chimere svolazzanti sopra un oceano di cellule intrise di sangue e nervi, immerso in una tempesta perenne di scariche elettriche e flussi biochimici. Tempesta che s'acquieta, per fortuna, durante la notte (almeno dal vostro punto di vista, non dal mio). Quest'oceano mentale è poi solcato dai marosi delle idee astratte, che sono prive di una qualsiasi riscontro fisico nell'universo. Trovatemi una sola molecola di musica, un atomo di poesia, una qualsiasi formula della moralità o una legge universale del fisco, e io vi mostrerò un asino di Buridano volante. Siamo sommersi quotidianamente da giochi, convenzioni, mode, leggi, ricchezze e usanze che non esistono, di cui la natura bellamente se ne sbatte, ma noi bovinamente le consideriamo vere. Reali. Concrete.
Prendete la politica. Secondo tutti esiste, è vera, reale. Ma cos'è la politica? Un gruppo di persone che si trovano a mangiare pizzette e bere verduzzo presentando il nuovo candidato per le regionali? Una banda diversamente colta che salva la razza iperuranica picchiando maghrebini innocenti? Due milioni di persone (secondo noi) che vanno in piazza a sventolare centomila arcobaleni (secondo la Questura) sopra un oceano rosso sangue?
Io sarò pazzo, sarò malato, ma se non ci troviamo d'accordo nemmeno sui numeri, come fa ad esserci qualcosa di oggettivo in tutto ciò? Come si può essere sempre sicuri di aver ragione, quando l'altra metà del mondo è altrettanto sicura che abbiamo torto? Non vi sembra un tantino strano che siamo sempre noi a leggere i giornali giusti, a conoscere la verità, a vedere i fatti?
Chiedo venia, è la malattia che torna a galla, sbraita, s'agita impugnando slogan nichilisti in canone ascendente. Qualcuno potrebbe fraintedere e scambiarmi per qualunquista, ignavo, disertore e menefreghista. Forse dovrei imparare da voi, credere anch'io in qualcosa, smetterla di farmi le seghe mentali e sostenere la mia verità.
Dopotutto anch'io ne ho una, di verità. Credo (di credere) fermamente in qualcosa, un qualcosa comprovato dai fatti, condiviso dai saggi e vissuto nel quotidiano. Credo (di credere) che la realtà sia un'illusione e che la verità sia un'esperienza virtuale interattiva. E credo (di crederci) perché lo vedo tutti i giorni, in treno, in ufficio, sotto casa.
Almeno credo.

C'era una volta un gruppo di vampiri. In realtà erano giocatori, normalissimi studenti che si trovavano in salette riservate, spesso prenotate per l'occasione, altre volte prestate da amici.
Si vestivano un po' eleganti e si davano nomi altosonanti. Si tesseravano al club e versavano volentieri qualche contributo per la causa. Lo chiamavano "giocare di ruolo".
Durante un gioco di ruolo, i vampiri cercavano alleanze, stipulavano patti, fondavano correnti e tradivano i compagni di mille battaglie. Si leggevano programmi, certo, ma poi nessuno li rispettava. A volte qualcuno usava un potere, un'arte occulta o qualche corruzione malvagia, ma era tutto finto. Un alzata di mano, un colpo di matita, una strisciata di gomma, poi si rientrava nei personaggi. Come attori senza pubblico, la sera della prova generale.
Fuori, nel mondo reale, nessuno s'interessava a loro. Molti nemmeno sapevano che loro si erano riuniti, quella sera. Certo, se loro avessero concluso qualcosa, con quegli incontri, forse il mondo ne avrebbe risentito. E in alcuni casi ciò accadeva. Allora, quelle volte, la realtà mutava davvero. Attraverso il gioco di ruolo, ludico erede dello psicodramma, molti giocatori cambiavano, crescevano, miglioravano. Poco importa che durante la partita non si facesse altro che parlare, parlare, parlare. Si creava una realtà fittizia, officiando l'antico rito del pompino sociale reciproco, dove tu fingi di credere a me ed io fingo di credere a te. E giochiamo solo tra noi.
Ma alla fine, in qualche modo, la realtà cambiava, nonostante fosse tutto finto.

C'era una volta un gruppo di politici. In realtà erano cittadini, persone normalissime che si trovavano in salette riservate, spesso prenotate per l'occasione, altre volte prestate dal partito.
Si vestivano eleganti e si davano nomi altosonanti. Si tesseravano al partito e versavano volentieri qualche contributo per la causa. Lo chiamavano "fare politica".
Durante un incontro politico, i cittadini cercavano alleanze, stipulavano patti, fondavano correnti e tradivano i compagni di mille battaglie. Si leggevano programmi, certo, ma poi nessuno li rispettava. A volte qualcuno usava un potere istituzionale, un'arte massonica o qualche corruzione economica, ma era tutto non documentato. Un alzata di mano, un colpo di matita, una strisciata di gomma, poi si rientrava nei personaggi. Parlamentari senza pubblico, il giorno della grande votazione. Fuori, tra i partiti avversari, nessuno s'interessava a loro. Molti nemmeno sapevano che loro si erano riuniti, quel giorno. Certo, se avessero concluso qualcosa, dopo quegli incontri, forse il mondo ne avrebbe risentito. Ma purtroppo, raramente un avversario partecipava ad uno quegli incontri, e ancor più raramente cambiava idea dopo una discussione. Ognuno leggeva i suoi giornali, partecipava ai suoi comizi, e faceva politica solo per quelli che la pensavano già come lui. Si creava così una realtà fittizia, officiando l'antico rito del pompino sociale reciproco, dove tu fingi di credere a me ed io fingo di credere a te. E ci applaudiamo solo tra noi.
Ma alla fine, in qualche modo, la realtà cambiava, nonostante fosse tutto finto.

Gigetto alza gli occhi dal foglio, scuote la testa, mi guarda.
- Non va bene.
- Non va bene?
- No.
- Cosa non va bene?
- Troppo astratto, poco pratico.
- ...
- Così sembra quasi che non esista nulla, invece ...
- Invece?
- Invece, quando ci credono tutti ...
- Cosa?
- Dai che lo sai! Se tutti ci credono, ad una convenzione virtuale, è come se ....
- Come se?
- Come se fosse ...
- Vera?
- No! Cioè sì. Insomma, non vera, ma quasi.
- Mi stai dicendo che è una mera questione di numeri?
- Beh, da un punto di vista ...
- E' la legge del più forte?
- Se vuoi metterla così ...
- Tu la metti così?
- Io?
- Sì, tu? Parlo con te: vedi qualcun altro, qui intorno?
Gigetto si guarda in giro, annuisce, sorride al lettore.
- Sì.


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