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Capitolo 1 - Giuliano Zagreus

La povertà ti renderà libero


La sintesi di una vita. Quanti anni? Venti? Trenta? Era difficile andare indietro, trovare il bandolo nel groviglio di emozioni, ricordi, viaggi e scelte precarie. Ma stasera c'era tempo, tanto tempo, e il concetto aveva trovato l'occasione per affiorare chiaro e limpido.
Giuliano guardò l'albero stingersi davanti lui. Non c'erano altre attrazioni, né passatempi, in mezzo al bosco avvolto dal crepuscolo. Sorrise: prima di ogni viaggio la sua preoccupazione principale era sempre la noia nel dopocena. Zagreus il libertino, il santone, l'animale sociale, diventava un'altra volta un eremita. Come avrebbe passato il tempo? Come evitare di essere travolti dalla slavina vischiosa della depressione, capace di avvolgerti e trascinarti in umidi stagni, ma ancora avari di lacrime? Era abituato ad avere il ritmo dei tamburi nelle orecchie ogni sera, lui. La birra spanta sugli abiti logori. Qualcosa da fumare, qualcosa da leggere. Un rituale qualsiasi.
Adesso nulla. Grilli, oscurità, quiete.
Non si era mai lavato i denti con tanta cura.
Quello era il segreto: essere povero, non possedere nulla! Nessun fardello materiale, nessun'aspettativa del domani, nessun progetto per la serata. Se non hai niente da fare, davanti a te, l'ansia scompare veloce come un fiocco di neve nel deserto. Non tocca neppure terra, non fa in tempo ad appoggiarsi sul cuore né a raffreddarlo. Il calore cresce, si avvolge e si conforta da sé, riscaldato dal vuoto delle preoccupazioni. Dall'assenza delle possibilità.
L'albero era un po' più scuro adesso. Quella foglia grigio-argento, in alto a sinistra, si era adombrata di macchie nere. Il ramoscello iniziava a confondersi con la notte, velluto su velluto, smarrito nel manto profumato che scendeva verso occidente. C'è n'erano tanti di alberi da guardare, un vero spettacolo. Com'era possibile annoiarsi?
Il sorriso si allargò ancora. Pensò a tutte le fotografie dei lama tibetani, ai loro denti storti, a quelle bocche ridenti senza motivo. Ecco perché si divertivano tanto! Non avevano problemi, erano troppo poveri per poterseli permettere. Si sentiva come uno di loro, ed era facile capirlo. Aveva avvolto i lunghi capelli neri in due code, alla maniera dei guerrieri apache. La pelle ramata baluginava nella notte, facendolo spiccare come l'icona di una bizzarra vetrata gotica davanti alla tenda. Il colore del volto, bronzo scurito dalla notte, si accostava alla maglietta striata di viola e arancione, illuminandolo di luce fioca.
Facile confonderlo con uno sciamano vero.
Ecco Vega, la prima stella. Il nome dell'astro rievocò i primi cartoni animati, quelli che iniziavano alle quattro del pomeriggio. Si accorse che stava cantando la sigla di Goldrake solamente alla seconda strofa. Scoppiò a ridere: annoiarsi?
Impossibile.
La vita è troppo breve per essere presa seriamente.

Al mattino c'era acqua dappertutto. Sulle piante, all'esterno della tenda, sul lato interno del telo impermeabile. Aveva sentito la pioggia venire giù tutta notte, lo aveva cullato affettuosa come una madre premurosa e piena d'attenzioni. La fregatura era l'umidità. All'alba saliva dal terreno sgorgando invisibile tra i filamenti d'aria fredda, appiccicandosi ad ogni stelo d'erba, cosa o persona. Tenda compresa. Ci vollero due ore per asciugare tutto. Il sole si faceva desiderare, timido dietro le nuvole. Come non pensare all'intuizione di ieri sera?
Esseri poveri di pensieri.
Non doveva andare in ufficio. Nessun autobus da perdere, nessuna famiglia lo attendeva, nessun'innamorata sentiva la sua mancanza. Il futuro si dipanava vuoto davanti a lui, a mani nude, spogliato da qualsiasi impegno. Una parete senza calendari appesi, solamente quadri, quadri bellissimi, ritratti giganteschi di madre natura. Era tutto lì il segreto: aspettare il sole serenamente, senza fretta, come se avesse avuto l'intera eternità dinanzi a sé. Perché dal suo punto di vista era esattamente così: aveva tutto il tempo che voleva perché non aveva niente con cui riempirlo.
Tastò il nylon, ormai asciutto. Richiuse la tenda, piegandola con cura e infilandola nello zaino. Il sacco a pelo era già al suo posto, in basso. Poi toccò ai vestiti di ricambio: una maglietta, un paio di mutande, un paio di calzini, l'asciugamano. Infine acqua, cibo e la borsetta toilette. Giuliano viaggiava sempre leggero, ma adesso era particolarmente leggero. Quella non era una passeggiata né una gita di piacere. Gli era toccato il ruolo del messaggero, aveva un pacco da consegnare, un pacco ingombrante e parecchio pesante. Ecco, quello era l'unico pensiero di non povertà: consegnare il messaggio al destinatario. Per fortuna non c'era data di scadenza, quando arrivava arrivava. Doveva solamente accendere un fuoco, dare il segnale e sarebbero venuti a prenderlo. Probabilmente tra una settimana, forse prima.
Gli altri usavano il termine "corriere", lui preferiva definirsi un "messaggero".
La differenza c'era, ma era difficile da cogliere per chi non sapeva cosa bolliva in pentola. Agli occhi di tutti Giuliano Franzon era un corriere affidabile, solo lui sapeva che le cose stavano diversamente. Le apparenze ingannano, per fortuna. Basta saperle manovrare per depistare i sospettosi come allodole abbagliate dal luccichio del vetro, ecco cos'era la magia. Conoscere l'animo umano, i nastri magnetici che scattano nella testa quando ascolti qualcuno. Quando credi di ascoltarlo. Invece stai lì ad ascoltare vecchie registrazioni che partono da sole, dopo ogni parola, mentre pensi - Ah, sì! Conosco questo discorso.
Giuliano lasciava spesso che gli altri si illudessero di aver afferrato una qualche verità, di averlo compreso. Era il modo migliore per far credere alla gente di aver capito tutto, quando in realtà quel che gli passa per la testa lo aveva deciso lui. Induzione del pensiero, solo che al posto degli specchietti si usano le apparenze. Facile facile.
Era ora di mettersi in marcia, lo zaino era pronto, il sole iniziava a riscaldare. Scese dal monte dove aveva passato la notte, raggiungendo la strada che portava al prossimo paese. Camminare sull'asfalto era fastidioso, i piedi soffrivano di noia piatta, ma sfortunatamente non c'erano altri sentieri per almeno cinque chilometri.
Un'ora più tardi incrociò la faccia di legno del cartello che indicava il percorso. Guardò in alto. Guardò più in alto. Due vette spiccavano gigantesche davanti a lui. Due colossi inginocchiati, coperti di pelo verde. Alberi talmente lontani da sembrare muschio, morbido e profumato. A cosa servono le mappe quando il valico urla la sua presenza a quel modo? Gli sembrava di sentirlo gridare.
- Eccomi, Giuliano, sono la tua via maestra. Attraversami stanotte se ne hai il coraggio, e ti aprirò le porte per un nuovo mondo.
Che ironia: da quella parte stava l'Italia, altro che nuovo mondo! Una mera questione di punti di vista, anzi, di punti di partenza. Quando si viene dal freddo nord, dai venti ghiacciati del centro Europa, l'Italia diventa l'America. Il paese dei balocchi, dove i pomodori sanno ancora di pomodoro, il sole scalda anche d'inverno e le tasse sono un'alternativa al campionato di calcio per bestemmiare al bar.
Bel valico, proprio bello. Una cima era solcata da nuvole veloci, come veli leggeri di uno spogliarello ad alta quota. L'altra era già nuda, coperta dal manto sottile dei prati lontani, irta e affusolata contro il cielo grigio. Lassù faceva sicuramente freddo, la felpa poteva non bastare. L'estate in montagna è una stagione senza compromessi: prima congeli sotto le nuvole, poi le folgori infuocate ti cucinano la pelle. Decise che era il caso di fare un po' di provviste prima di affrontare la salita. Il passo era sopra i duemila, poteva scordarsi amoli, mele selvatiche e bacche succose. Invece c'era un paese ad appena un paio di chilometri, valeva la pena proseguire per un po' sulla strada asfaltata e cercare un alimentari.
Però gli bruciava. Ogni volta che tornava alla civiltà, figliol prodigo, si sentiva sconfitto. I suoi ideali sull'autosufficienza, il boicottaggio estremo del sistema, la fuga dal mondo dei consumi: tutto crollava. Ci doveva lavorare ancora un po' su, si diceva. Anche un viaggio di mille miglia inizia con un solo passo, no? Lui stava uscendo dal meccanismo, ci voleva tempo, non era una di quelle cose che si fanno dall'oggi al domani. A dir la verità ci lavorava da vent'anni, aveva fatto grandi progressi, ma il lavoro non era ancora finito.
Pazienza, Giuliano, ci vuole pazienza. Ancora questo carico, poi forse...
Entrò nel negozio smarrito tra mille pensieri narcotizzanti, mantra ipnotici necessari per ammazzare il senso di colpa ed acquietare la coscienza. A volte bisogna ingannare anche sé stessi per sopravvivere. Intanto stava lì, zaino in spalla, a guardare i vasetti di pelati come fossero bombe a mano. Un bambino povero perso in un negozio di giocattoli.
Decise per una spesa folle: cuore di maiale, lattina di birra ed un pezzo di pane. Cena assicurata con duemila lire, un pasto da re. Per una sera niente bacche, nessuna radice legnosa da mordicchiare, ma carne sfrigolante sul fuoco e birra ghiacciata.
Era così effimera la definizione di benessere! Il ricco Giuliano uscì dal negozio a testa alta, puntando diritto verso il sentiero. Nello zaino c'era tutto ciò di cui aveva bisogno, forse anche di più. Entro l'ora di pranzo avrebbe raggiunto i duemila metri. L'ultima mela, un po' di noci ed uva passa. Vitamine, carboidrati ed acqua. Alla proteine ci avrebbe pensato la sera, incantato dal fuoco, assaporandosi quel cuoricino di maiale appena acquistato.
Come facevano gli altri? Lui aveva provato a mangiare al ristorante, in pizzeria, assieme ai comuni mortali, ma non ce la faceva proprio. Guardò verso il basso mentre lasciava la strada asfaltata, come a cercare un appiglio con la società che non riusciva a comprendere. Perché lui era così diverso? Poteva fermarsi in una casetta come quella, alla periferia di un paesino di montagna, col ruscello accanto. Un sogno? Oppure un compromesso? O una sconfitta? Ma quale sconfitta? Se c'era una guerra, lui non lo sapeva. Eppure si sentiva un soldato di Gaia, un figlio della natura che tornava tra le calde braccia della madre. Non c'erano spari in quella guerra, ma ciminiere, catrame, asfalto e cemento. E ristoranti. E bambini che morivano di fame. Balene che si suicidavano sulla spiaggia. Gabbiani inzuppati di petrolio.
No, quella casetta non faceva per lui. Avrebbe dovuto pagare una tassa sulla proprietà, chiedere l'allacciamento dell'acqua, forse anche quello della luce. Magari comprare un frigorifero. Troppi compromessi, sarebbe stato un disertore che abbandona la battaglia.
Meglio guardare avanti e proseguire lungo il sentiero.
Ma come facevano gli altri, a non sentirsi in colpa? Ad ordinare una capricciosa senza vedere gli occhi dei bambini dal ventre gonfio di gas? Masticare carne succulenta senza pensare agli allevamenti intensivi? A lui bastava guardare le posate pulite, il lampadario agghindato di fronzoli, la tovaglia bianca e il registratore di cassa. Era come guardare le viscere di un demone gigantesco, da dentro. Essere parte del sistema, una rotella insignificante del macchinario gargantuésco, una cellula del mostro che divora tutto e tutti.
Lui non ci stava dentro. Preferiva dormire nei parchi, fare un po' di contrabbando, mangiare sardine in scatola e godere di una birra come manna dal cielo. Si sentiva vero, si sentiva vivo, lontano dalla perversa realtà illusoria creata dall'uomo moderno. Dove basta aprire un rubinetto per avere acqua. Pigiare un pulsante per avere luce. Alzare una mano per avere un caffè.
Artificiale, era tutto artificiale. Un'altra realtà, una di quelle vere, si mostrava sincera davanti ai suoi occhi. Verde, alberi, montagna. Un freddo cane, ma vero. Un caldo torrido, ma sincero. Capire cos'è la fame. Patire la sete. Saltare di gioia alla vista di un torrente. Socchiudere gli occhi in un orgasmo di piacere, naufragando nel sapore di un cespuglio di more. Rendere grazie per ogni folata di vento, per ogni giornata senza pioggia, per ogni notte senza temporale. Addormentarsi sotto le stelle, cullati dal mormorio del bosco. Quella era una realtà sincera: il peso dello zaino sulle spalle, il sudore della salita, l'aria fresca che riempie i polmoni. Il peso, il sudore, la fatica.
Dolore, freddo, stanchezza.
Una realtà.
Una dura realtà. Quanto mancava all'ora di pranzo?
La salita stronca chiunque, anche gli idealisti più convinti.

A volte la vita è come un'enorme scacchiera, sconfinata a perdita d'occhio, trafitta da giganteschi quadrati bianchi e neri. E tu sei un pedone, un insignificante pezzo di carne da macello, smarrito in un mare di latte senza fine. Dov'è il nero? Dove finisce la casella?
Ti chiedi se ci sarà davvero qualcun altro più avanti, lungo il cammino, senza sapere se incontrarlo sarà una fortuna o un disastro. Siccome sei un pedone e non uno stupido hai imparato che fare incontri non sempre risulta conveniente, quindi non ti lamenti. Insomma, meglio soli che male accompagnati. Eppure c'è qualcosa che non torna, nella testa ti ronza la brutta sensazione di aver dimenticato un dettaglio, un particolare, senti l'eco sorda della domanda che fugge la risposta. Poi tutto si fa nero, la notte ti avvolge e allora capisci.
Ti senti solo, incompreso, abbandonato e senza meta.
Ti manca l'amore.
Era bastato poco a rovinare l'incanto. Il fuoco crepitava sotto le stelle, danzando silenzioso con la brezza e la notte, illuminando la maschera triste dipinta sul volto di Giuliano. Brutta cosa il mal d'amore, specialmente quando non c'è un nome da implorare, un volto da sognare, una pelle da ricordare. Il cuore batte vuoto, gli occhi cercano un appiglio per la mente, una giustificazione. Giuliano era libero dalla servitù del lavoro, aveva trasformato l'esistenza in un'eterna vacanza, senza tasse e mutui da pagare. Però restava Il Problema, lo stesso che avevano dovuto affrontare Galileo, Gesù Cristo e Cristoforo Colombo: a che serve uscire dal sistema se tutti gli altri ci rimangono dentro?
Girò lo spezzatino di maiale, illudendosi di rimescolare anche il suo, di cuore. Non era la mancanza di una donna a farlo soffrire, senza amore si può vivere, Giuliano ne era convinto, era un altro il pensiero che lo tormentava: perché non poteva condividere una vita tanto meravigliosa? Se fosse stato l'ultimo umano rimasto sulla Terra se la sarebbe messa via, pazienza, poteva godersi un'esistenza da bon savage e tanti saluti alla storia.
Invece guarda che bellezza quello spezzatino. Il profumo del marrubio sulla carne, non la spezia migliore ma quello che passa il convento, la luce rossa della pietra tra le braci, e nessuno a cui dire "Che meraviglia, eh?". Nessuno da abbracciare davanti al trionfo della natura. Tutto quel ben di Dio solamente per lui, un insulto al romanticismo.
Questo lo faceva soffrire: il sapere che da qualche parte, persa chissà dove, c'era sicuramente una donna che avrebbe apprezzato le gioie della povertà. E invece gli toccava godersi il creato da solo, come un francescano misantropo e misogino.
Poi accaddero tre eventi, e l'immagine del frate egoista si smarrì nel dedalo delle sinapsi neuronali. Innanzitutto Giuliano masticò il primo boccone di pane e cuore di maiale e cadde sulle ginocchia, la braccia al cielo, piangendo di felicità.
- Grazie Grande Spirito, grazie di tutto questo.
Il sapore della carne dopo giorni di bacche e radici aveva scatenato un sisma ormonale nel suo corpo, ed era solo l'inizio, adesso toccava alla birra. Il divorzio del tappo dalla bottiglia diede il La al secondo evento: malto fermentato aromatizzato al luppolo, alcool e anidride carbonica ghiacciata, zuccheri misti a proteine, sapore degli dei e colore aureo. Non c'è nulla come una birra non preventivata: ti rapisce il cervello, lo intinge nella spuma bionda, massaggiandolo mentre accarezza il palato che ringrazia felice.
- Grazie Grande Spirito, grazie per l'orzo dorato che aleggia nei campi baciati dal sole.
Per ultima arrivò la tentazione. Dopo tanta goduria Giuliano si era sciolto in un brodo di giuggiole, niente ormai poteva dissuaderlo dall'elevare all'ennesima potenza quell'orgasmo di felicità. Nemmeno il senso del dovere.
- Non si potrebbe ma... quasi quasi un assaggino...
Era senza tabacco, ma aveva trovato una cartina di emergenza nel portafoglio. La marijuana scacciò i demoni della solitudine dall'anima arida dello sciamano, costringendoli a fuggire attraverso i pori delle pelle e rifugiarsi nel bosco. Tutto era diverso, adesso.
Non aveva l'amore, ma che importava? In ogni film che si rispetti il protagonista è solo, sconsolato e sfiduciato. Essere scapolo era la dimostrazione infallibile che avrebbe trovato l'amore da lì a poco. Se lo ripeteva da vent'anni, è vero, ma ciò non toglieva nulla alla chiarezza del concetto, anzi: una lunga attesa garantisce un amore altrettanto grande.
Alzò gli occhi verso il cielo: stormi di nuvole grigie correvano rapide come cavalli selvaggi, calpestando prati di stelle senza romperne neanche una. Che lampadine resistenti devono usare lassù, ridacchiò Giuliano. Eh già, la vita dopo uno spinello è un'altra vita! C'è chi dice che ciò è male, perché si domanda dov'è la tua vita mentre stai vivendo una realtà dipinta di rosa. Altri, come Giuliano, non capivano dov'era il problema. Se io vivo un'esperienza intensa, che importanza ha rintracciarne il legittimo proprietario? Tanto quel che provo mi appartiene comunque, i ricordi sono miei e sempre autentici. Come il dialogo del tremolo, ad esempio.
Giuliano adorava parlare con gli alberi. Un pomeriggio sotto acido si era perso ad ascoltare le vecchie storie di un pioppo tremolo. Ricordava alla perfezione quella giornata, aveva iniziato col riflettere sull'apparenza delle cose, la percezione fenomenica della realtà, fatta di colori, suoni e sapori. Per carità nulla di nuovo, gli induisti ci erano arrivati da migliaia d'anni col velo di maya, e pure Aristotele ci aveva visto giusto. Eppure ogni volta era uno sballo pensare che l'albero non era un albero, ma l'illusione effimera dei nostri sensi. L'albero vero, quello che esisteva realmente, era un'entità misteriosa nascosta là sotto, da qualche parte, in un'altra dimensione dell'universo. Ed era davvero grosso.
Quel pomeriggio Giuliano non era riuscito ad immaginare come fosse l'albero "vero", del resto non aveva poi molto senso porsi domande del genere, ma aveva intuito che l'essenza soggiacente alla pianta fosse un qualcosa di enorme, un invisibile gigante buono che sonnecchiava coperto dalle fronde. Perciò aveva deciso di fare amicizia col titano verde e farsi raccontare qualche storiella. Solo molto tempo dopo si era interessato di botanica ed aveva scoperto il nome dell'albero: pioppo tremolo. Tremolo? Incuriosito aveva proseguito le ricerche e cos'era saltato fuori? Che quello era l'albero sacro agli Indiani d'America, la pianta degli spiriti, il portavoce dell'anima dei trapassati. Bella coincidenza.
Tutto questo avveniva molti anni prima, quand'era un giovane fricchettone che si sballava per violentare il sabato sera e farsi friggere il cervello. Adesso le cose erano diverse: aveva compiuto quarant'anni, erano già spuntati i primi capelli grigi e lo sciamanesimo non era più un trucco per portare le ragazze nei boschi di notte. Adesso il bosco era suo fratello maggiore, il cielo un padre affettuoso e la terra una madre amorevole.
Adesso stava piovendo e lui era fatto come un copertone, accanto al fuoco spento.
Per fortuna quella non era vera pioggia. Stava solo rischiando di buscarsi un raffreddore "virtuale", forse avrebbe dovuto mangiare un po' di frutta "virtuale" e mollato qualche starnuto "virtuale". Perché la realtà vera era diversa, diversa da far paura e Giuliano lo sapeva bene, lui aveva toccato l'essenza sanguinolenta della vita e staccato la spina.
Però continuava a sbagliare come un dilettante: non poteva concedersi pensieri simili, soprattutto non adesso. Se i muri hanno orecchie, allora gli alberi sono telepatici.

"Si vedrà che ne ho fumata un po'?" Giuliano sapeva come togliere una cicca da un pacchetto di sigarette senza aprirlo, bastava una lametta da barba e un po' di colla vinilica. Ma una confezione di contrabbando era una sfida anche per lui. Si guardò attorno alla ricerca di un albero resinoso, qualsiasi cosa che potesse servire a sigillare meglio il sacchetto che aveva aperto. Il paesaggio luminoso lo rincuorò all'istante: il sole splendeva alto in cielo, facendo il solletico ai prataioli che giocavano a nascondino nell'erba. Che pensieri stupidi, preoccuparsi per averne presa un pizzico... lo facevano tutti i corrieri, no? Ma lui era un messaggero, non un corriere, se l'era detto e ridetto, adesso gli rodeva usare come scusa una definizione di facciata. Inspirò a fondo per scacciare pensieri e preoccupazioni.
Il confine doveva essere da qualche parte davanti a lui, forse l'aveva addirittura già attraversato. Cos'era un confine se non un solco nella mente degli uomini? Gli sarebbe piaciuto scoprire una recinzione lillipuziana nascosta tra i cespugli di rosa canina, o una torretta di guardia abbarbicata tra i butti di un vecchio faggio. Così era fin troppo facile, non c'era gusto, un contrabbandiere senza confine è come una mela senza verme, contraffatta e sospetta. Quindi occhi aperti e orecchie aguzze.
Niente, il mondo non voleva dargli soddisfazione. Controllò la cartina, quella geografica, per dare una nazionalità alle fabbriche che sbuffavano sotto le montagne. Se quella era Como allora quelle erano ciminiere italiane e lui ce l'aveva fatta un'altra volta. Dietro il sospiro di soddisfazione era celata un'ombra di delusione: se non lo arrestavano nemmeno stavolta il messaggio non sarebbe arrivato. Cosa doveva fare, andare alla Polizia e costituirsi per traffico di stupefacenti?
Era stanco di aspettare, andare avanti e indietro carico di droga, chiedendosi quando e come lo avrebbero beccato. Almeno avrebbe saputo perché. Comunque era in anticipo sull'appuntamento e doveva aspettare fino a sera, tanto valeva prendersela comoda. Lasciò cadere lo zaino sul tappeto erboso, tolse la maglietta fradicia di sudore e slacciò gli scarponi gettando i calzini per aria. Era di nuovo un uomo libero.
Iniziò a correre su per il prato, verso un boschetto arroccato mezzo chilometro più in alto. Solamente a piedi nudi si può sentire il contatto con la terra, la carezza vellutata della moquette pulsante di vita, fin troppo pulsante. Le spine di un cardo si conficcarono nella caviglia ma lui nulla, continuò a correre ululando di gioia (o dolore). Non si fermò nemmeno quando l'alluce rischiò di frantumarsi contro una pietra mimetizzata tra le foglie.
Stavolta era dolore.
Fu il fiato a costringerlo alla resa, non aveva più vent'anni e la dannata biologia ci godeva sadicamente nel ricordarglielo. Sdraiato sull'erba quasi gli sembrava di sentirla sghignazzare, la grande Signora Scienziata, mentre si vantava di aver sempre ragione lei.
- Non hai più vent'anni, Zagreus, te ne rendi conto? Cosa fai, ti metti pure a correre su per le montagne, alla tua età? Ti potrebbe venire anche un infarto, sai...
- E chi se ne frega - rispondeva lui ogni volta - meglio morire di libertà che vivere schiavo dell'ingranaggio arancione.
I suoi polpastrelli presero a coccolare gli steli d'erba, uno per uno, per concentrarsi meglio sul presente. Lo stesso fecero tutti gli altri sensi: quella era libertà. Fiato che esce, respiro che entra, dove finisce l'universo e dove inizia Giuliano? Unità, libertà, fraternità. Unità con la terra, sotto di lui. Libertà nell'aria, dentro i polmoni. Fratellanza col mondo intero, dipinto sulla pelle arsa dal sole. L'uguaglianza era sottintesa.
In quelle occasioni di gioia infinita gli veniva spesso in mente Giorgio Gaber. Uno che aveva capito tutto sulle donne, la politica e gli altri misteri del cosmo. C'era solo una frase che non tornava mai, anzi stonava come un chitarra scordata amplificata a transistori: libertà è partecipazione. Come si poteva remare contro a quel modo? Lo spettro del cantautore sembrava aleggiare nell'aria fresca delle Alpi, bisbigliando dubbi nelle orecchie di Giuliano.
- Guarda che sbagli, bello mio. Libertà non è correre ai piedi nudi nei prati, e nemmeno usare mille stratagemmi per vivere senza lavorare. No, mio caro, ti sei semplicemente isolato dal resto del mondo. Sì, sì, non fare il furbetto, dico proprio a te. Te ne stai lì, sdraiato nel prato a far l'amore col sole, illudendoti di essere un uomo libero. Invece sei un disertore, un bambino che urla "non gioco più", perché non vuole perdere.
Avrebbe voluto dimenticarsela, quella frase del maestro. Col passare degli anni Zagreus aveva compreso ogni messaggio, condiviso ogni filastrocca, però quell'aforisma sulla libertà lo tormentava come un dente cariato dall'interno. Fuori tutto zucchero e miele, dentro un tumore maligno che marciva assieme agli scheletri nascosti nell'armadio. I vermi spolpavano la carne putrida, la coscienza si ribellava e non voleva capire. Una definizione troppo scomoda da accettare? Una sfida per la consapevolezza del sé? O Gaber quel giorno aveva voluto convincere soprattutto se stesso, si era parlato addosso? Perché la libertà non poteva essere quella, no no no.
Il segreto della libertà stava nell'evitare le dipendenze, questo aveva sempre creduto Giuliano. Lavorare senza arricchirsi, fumare senza prendere il vizio, amare senza innamorarsi. In altre parole essere poveri di esigenze. Aveva improntato l'intera esistenza su questa verità, e nel connubio tra povertà e libertà la parola "partecipazione" non ci stava bene, anzi: non ci stava affatto. A meno che...
In alto, sopra di lui, un rapace si tuffò dentro una macchia scura. Forse un falco in caccia di una civetta, non aveva importanza: l'immagine scatenò una reazione a catena nella testa di Giuliano. Fu come togliere il tappo di una vasca colma di letame, gli sembrò quasi di sentire un gigantesco "plop" echeggiare tra le valli e gli alberi.
Ecco perché la sera prima gli era salita la depressione! I pezzi di un puzzle in costruzione da trent'anni si fusero nelle meningi surriscaldate, distogliendolo dal presente che gli aveva suggerito la risposta giusta. Vista, olfatto e udito si curvarono dentro lui, scavando nell'anima incuriositi dal reperto archeologico che all'improvviso prendeva significato. Lui era libero, libero perché povero, l'idea della non dipendenza era giusta eppure mancava qualcosa, qualcosa di cui aveva un disperato bisogno, qualcosa che per sua sfortuna era la nemesi stessa della libertà. Da cui la fregatura.
Non era mai stato capace di condividere la libertà.
Cristo, trent'anni in giro per il mondo in autostop, seminari tantrici, droghe di ogni tipo, arte, misticismo, meditazione e la risposta era tutta lì. Bella come il sole, anzi, abbagliante come il sole. Abbagliante era proprio la parola giusta per l'occasione.
Zagreus era famoso per essere un veggente, uno di quelli che prevede sempre gli eventi un attimo prima che accadano. Uno che sa già cosa stai per dire o per fare, si presenta sulla porta quando lo pensi e ti telefona se lo hai sognato. Un tipo così non si sarebbe mai fatto cogliere di sorpresa, non per niente contrabbandava marijuana tra la Svizzera e l'Italia.
Purtroppo le illuminazioni improvvise hanno la brutta abitudine di abbagliarti.
Quando gli occhi ripresero a guardare all'esterno, distogliendo l'attenzione dall'orgasmo mentale in atto, videro la canna di una mitraglietta ad una spanna di distanza. Dietro la mitraglietta un poliziotto, poi un altro, un altro ancora e così via fino alla fine del campo visivo. Una bella serie di statuine aguzze come denti, allineate in cerchio dentro il panorama idilliaco: al centro il cielo azzurro, tutt'intorno divise blu come strisce verticali. Era la visione di una prigione, ma Giuliano l'aveva colta un po' troppo tardi.
Mentre lo arrestavano un solo rammarico: Gaber aveva capito tutto.