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I concetti fondamentali dello zen

Tentare di schematizzare i concetti fondamentali dello zen è un'impresa delicata, perché ciò va contro lo spirito dello zen. Considerato però che in Giappone la scuola zen Rinzai prevede trent'anni di studio dei koan, il superamento di esami orali e un'insegnamento in parte formale, ritengo che valga la pena provarci.

Illusioni

Triangolo di Kanitza

Le nostre sensazioni e percezioni sono "illusorie". Colori, suoni, sapori e forme esistono solo nella mente, non negli oggetti che percepiamo. Dal punto di vista fisico la luce non ha colore, è solamente un'onda elettromagnetica di una certa frequenza: il colore, come ogni percezione, è generata dal cervello. Analogamente anche i concetti sono illusioni. Non esistono sedie, bicchieri, tavoli, ma solamente percezioni che rientrano in tali categorie. Dal punto di vista psicologico gli oggetti sono astrazioni di esperienze. Dal punto di vista matematico gli oggetti appartengono allo spazio quoziente ricavato da una relazione d'equivalenza. Conseguentemente ogni ideologia, legge morale o concetto mentale è un'illusione. In natura non esistono bene e male, presente e futuro, bello e brutto.

E' l'uomo, in quanto "misura di ogni cosa", che attribuisce valore agli eventi. Lo afferma anche la Meccanica Quantistica, che considera gli attributi delle particelle il risultato dell' applicazione di un operatore (detto osservabile) ad un'onda. Finchè nessuno compie una misura, la particella non ha nè posizione nè velocità definita, ma solamente una distribuzione di probabilità. E' come se l'osservatore, nel momento in cui decide di compiere una misura, agisse sulla leva di una slot machine ottenendo un duplice risultato: un valore numerico che descrive una proprietà fisica (ad esempio la posizione) e l'imposizione casuale di una configurazione che rappresenta il nuovo stato della particella.

La mente umana costruisce i concetti di bene, male, passato e futuro allo stesso modo. Ma tali concetti non sono diversi dai sogni, poiché esistono solo nella mente e non nel mondo reale presente, che è l'unico mondo conoscibile.
Ne segue che la luce non è nemmeno un'onda elettromagnetica e gli atomi non sono particelle, perchè "onda" e "particelle" sono concetti della mente. Un fisico non direbbe mai che gli atomi esistono, piuttosto direbbe che esistono "cose" che il modello atomico descrive in maniera soddisfacente.

L'ultimo passaggio, il più importante, è capire che l'idea che abbiamo di noi stessi è un'illusione. Noi ci definiamo in base ai nostri ricordi, che sono illusori e fallaci. Ci descriviamo in base alla percezione delle nostre emozioni, cercando di collocare la nostra personalità all'interno di categorie come "idealista", "altruista", "generoso" o "eclettico", le quali sono un prodotto della nostra cultura. Costruiamo un'immagine di noi stessi fissa, mentre noi cambiamo continuamente, centinaia di volte al giorno. Ci identifichiamo con i nostri valori, la nostra ideologia, i nostri principi, che sono prodotti della nostra mente, etichette che forse ci possono descrivere, ma non sono la nostra essenza. Affermare che noi siamo la stessa persona che eravamo dieci anni fa, dicendo di essere "diventati più vecchi", è come dire che l'inverno è "diventato" estate, o che il rosso dell'arcobaleno "diventa" indaco. Siamo noi a fissare delle categorie spaziali, temporali, semantiche, ma le categorie sono un modello della realtà, non la realtà stessa. Identificarsi con l'immagine che abbiamo di noi stessi è come confondere la cartina stradale con il territorio davanti ai nostri occhi.
Tutto ciò è umano, giusto e naturale, non vi è nulla di sbagliato nel soddisfare il bisogno spontaneo di aggrapparsi ad un'immagine simbolica di noi stessi, ma ciò non cambia il risultato: l'ego è un'illusione.

Vuoto e verità

L'accusa più frequente rivolta alle filosofie filo-induiste è quella di essere nichiliste, ma non è così. Comprendere che la realtà che abbiamo in mente è illusoria è solamente il primo passo del cammino.
Descrivere il mondo attraverso parole, simboli e concetti è come guardare un paesaggio attraverso una griglia. Non potendo indicare direttamente la natura noumenica di un oggetto, lo identifichiamo per mezzo delle sue "coordinate semantiche" ovvero simboli, parole, suoni, disegni o scritte. Quando devo indicare un oggetto, comunicare una direzione o descrivere la dinamica di un evento, la griglia si rivela utilissima. Sarebbe scomodo esprimersi in termini unitari, ne uscirebbero frasi del tipo "il coso ha cosato le cose cosatamente". Molto zen, ma sicuramente poco pratico. Invece, per mezzo della griglia, posso dire "l'albero in cima alla collina ha perso le foglie nottetempo". Oppure che il capitello in L8 è raggiungibile attraverso il sentiero della direttrice CD (vedi figura). La griglia permette di identificare (quasi sempre) gli oggetti senza ambiguità, calcolare distanze, tracciare rotte.
La griglia è uno strumento utilissimo, indispensabile, ma non è la realtà.

Vedere attraverso la griglia

Ecco perché induismo e buddismo insistono sulla vacuità dei simboli: essi sono contenitori, oggetti vuoti, esattamente come le caselle di una griglia. La realtà ultima è ciò che rientra "dentro le categorie", non va confusa con il "fil di ferro mentale" che costituisce le categorie stesse. Arrivamo così alla svolta cruciale:

La verità è ciò che percepiamo, ma non riusciamo ad esprimere in alcun modo

In altre parole la realtà ultima è tutto ciò che rientra nelle categorie mentali ma non coincide con esse. Nel caso dell'Ego si potrebbe dire "io sono ciò che non so di essere". Non si tratta di un concetto filosofico, ma di un'esperienza che il seguace dello zen deve vivere di persona. Tentare di comunicare la visione della verità ultima è come cercare di spiegare che il fuoco brucia a chi non ha mai visto una fiamma ardere. E' necessario arrivarci da soli.
Dopo l'esperienza della verità qualsiasi visione nichilista scompare, non esistono più concetti come "reale" o "illusorio": ogni domanda sulla realtà stessa viene disinnescata, smontata a priori. Non esiste nemmeno un soggetto che vive tale esperienza, perché "l'unica verità è la percezione del fenomeno dell'esistenza": non c'è soggetto che percepisce, né oggetto che viene percepito: semplicemente accade.
In questi termini le caselline della griglia diventano reali, non in senso assoluto ma relativamente all'esperienza percettiva: anche se i colori sono un prodotto della mente, il nostro cervello li percepisce davvero. E' ciò che voleva dire Cartesio affermando "cogito ergo sum": il fatto che noi pensiamo è una certezza, non avrebbe senso dire che "pensiamo di pensare". Oppure, come disse Ch'ing-yuan:

Prima che per trent'anni avessi studiato lo zen, vedevo le montagne come montagne e le acque come le acque. Quando giunsi a una conoscenza più profonda, vidi che le montagne non sono montagne e le acque non sono acque. Ma ora che ho raggiunto la vera sostanza del conoscere, sono in pace.
Poiché ora vedo le montagne ancora una volta come montagne, e le acque come acque.

La pratica zen

Chi conosce lo zen ha sicuramente colto una contraddizione nel paragrafo precedente: quando abbiamo detto che l'esperienza della verità ultima non è esprimibile a parole ne abbiamo parlato tentando di spiegare di cosa si trattava. Affrontare lo zen in questo modo, spiegandolo attraverso frasi, concetti, esempi, è contrario alla filosofia stessa.
I maestri zen dicono che agire in tal modo significa "puzzare di zen", poiché si ripete il medesimo errore dell'induismo e del buddismo: si usa una spina per togliere un'altra spina, lasciando conficcata la seconda.
La caratteristica innovativa dello zen, rispetto a tutte le altre vie di liberazione è la ferma volontà di insegnare lo zen praticando lo zen. Una volta compresa che la realtà è un'illusione e che la verità è inesprimibile non bisogna restare incagliati nella compresione intellettuale di tale concetto; occorre invece metterlo in pratica giorno dopo giorno.
Ciò significa usare la mente solamente per fare ciò che si sta facendo, senza assentarsi. Se dobbiamo camminare, camminiamo percependo l'esperienza, senza pensare ad altro. Se dobbiamo mangiare, gustiamoci il cibo, senza concettualizzarlo e senza distrarci. Molti credono che lo zen significhi "agire senza pensare, con la mente vuota". Dipende da cosa stiamo facendo: se stiamo pensando a come investire i nostri risparmi, pensiamo serenamente, concentrati sul nostro compito, senza divagare tra meta-ragionamenti e riflessioni sul compito che stiamo svolgendo.
In altre parole: pensare va benissimo, ma deve essere un'esperienza "viva e presente", come fare all'amore.
A tal proposito Lin-Chi ha detto:

Quando è tempo di vestirsi, indossate i vostri abiti. Quando dovete camminare, camminate. Quando dovete sedere, sedete. Non abbiate un solo pensiero nella mente di inseguire la Buddità... Voi siete soliti parlare del vostro stato di perfetta disciplina nei vostri sensi e in tutte le vostre azioni, ma a mio parere tutto questo fa karma. Inseguire il Budda e inseguire il Dharma è esattamente fare karma, che porta agli inferni. Cercare di essere Bodhisattva è pure fare karma, e così studiare i sutra e i commentari. Budda e i patriarchi sono gente senza tali artificiosità... Dovunque è detto che v'è un Tao che si deve coltivare e un Dharma che si deve realizzare.
Ma quale Dharma voi dite che si deve realizzare e quale Tao si deve coltivare?
Che cosa vi manca nel cammino che state compiendo ora? Che cosa volete aggiungere a dove siete?

Autoreferenza

Un maestro zen ha descritto la pratica della disciplina come una "quieta consapevolezza, senza sforzarsi né di pensare né di non pensare". Non si può smettere di pensare con uno sforzo di volontà, sarebbe come cercare di cogliere l'attimo in cui ci addormentiamo. La mente non può afferare se stessa, poichè la riflessione sulla riflessione è un circolo vizioso di autoreferenza, come il famoso disegno di Escher delle mani che disegnano se stesse. Questo aspetto dello zen è d'ispirazione taoista, infatti nel taoismo tutto è spontaneo, naturale, non vi è modo di impedirlo. L'esperienza zen sembra difficile da raggiungere proprio perché è estremamente semplice: basta seguire ogni pensiero che sorge spontaneo, senza attaccarsi ad esso, come le immagini in movimento fuori dal finestrino. Non appena ci accorgiamo che stiamo divagando con la mente da mezz'ora, spontaneamente, in quel momento viviamo un piccolo satori. Se a quel punto abbiamo ancora voglia di divagare, lasciamo andare la mente e godiamoci l'esperienza. Se invece abbiamo altro da fare, agiamo concentrati sul presente.

Lo zen è quindi una filosofia concreta, che invita ad una pratica quotidiana, costante. Per questo motivo l'insegnamento dello zen appare spesso contradditorio, comico, grottesco o ermetico. Insegnare lo zen attraverso una serie di lezioni frontali, o scrivendo libri, sarebbe come tenere un corso per smettere di fumare con la sigaretta accesa in bocca: non sarebbe credibile. I maestri zen parlano poco, spesso rispondono a caso, oppure contraddicono qualsiasi affermazione dell'allievo, per spingere la mente verso un punto di rottura.

Non bisogna però confondere il senso di sollievo che si prova nel comprendere la filosofia zen con la pratica zen. Il satori è un'esperienza quotidiana, da raggiungere mentre si lavora, si lavano i piatti o si pubblica un articolo su un sito web. L'importante è evitare di meta-lavorare sul lavoro che si sta compiendo, non identificarsi con se stessi e non separare il soggetto dall'oggetto. Mettendo in pratica ciò che abbiamo appena detto, si può vivere l'esperienza zen anche facendo esattamente il contrario, oppure non facendo affatto, "lasciando fare". Ma anche no.


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