Breve saggio sull'onestà

L'ipocrisia è un omaggio del vizio alla virtù
[La Roche-foucauld]

Premesse

Riteniamo che uno degli obiettivi più importanti dell'esistenza umana sia la conoscenza del sé, intesa come auto-consapevolezza del proprio essere, ma soprattutto delle proprie scelte. Abbiamo già affrontato l'argomento in diversi sedi: enumerando alcuni dei risultati delle neuro-scienze, discutendo le posizioni di Pirsig e raccontando le avventure di Morfeo. Questa pagina si concentra su un caso ben specifico di presa di consapevolezza, ovvero la comprensione che dietro le nostre virtù si nascondono spesso vizi e paure. Siamo tutti pronti a puntare il dito, lamentarci del governo, scandalizzarci davanti alle nefandezze altrui ma, come diceva Nietzche, nessuno mente tanto quanto l'indignato. Ogni volta che ci scandalizziamo inganniamo noi stessi.

Allo scopo di discutere un aspetto pratico e ben delineato della questione abbiamo scelto una virtù che moltissime persone ammirano, o addirittura affermano di possedere: l'onestà. L'esposizione della tesi sarà alleggerita da alcuni brevi racconti autobiografici, allo scopo di spiegare come siamo tutti vittime di questo meccanismo, l'autore in primis.

Un'immagine allegorica

Falò

Immaginiamo d'essere davanti a un rogo di vampe rossastre. L'intera città è avviluppata dalle fiamme e noi stiamo lì, a guardarle incantati, come se ciò da solo bastasse a spegnere il fuoco. All'improvviso un tizio si muove, prende un bicchiere d'acqua e lo getta sulla pira. Qualcuno lo imita, svuotando una robusta secchiata sui tizzoni ardenti. E poi un altro, un altro ancora, fino a che arrivano quelli con la benzina.
- Benzina?

Sì, benzina. Un tizio ben vestito sta versando con nonchalance una fialetta di benzina sulle braci. E non è l'unico! A guardar bene molti di quelli che si prodigano a gettar liquidi tra le fiamme lanciano in verità secchiate di benzina. C'è chi si arrangia con la tazza, chi arriva con la tanica, chi srotola l'idrante. E quella che esce dalla lancia non è acqua, ma carburante ricco di ottani. Qualcuno denuncia la cosa, arrivano le forze dell'ordine e mettono le manette a un tizio che maneggia un idrante vomitante benzina. In pochi minuti tutti quelli che svuotavano secchi di gasolio finiscono in galera. A questo punto però ci fermiamo. Eh già, perché ci vuole un po' di buon senso, non possiamo fare di tutta l'erba un fascio. Non vorremmo mica arrestare un padre di famiglia, incensurato, perché ha svuotato un bicchierino di grappa sul fuoco? O quella signora col cucchiaino colmo di brandy, che lo fa per i figli? Insomma: lasciamo correre. Almeno le piccole mancanze... un po' di buon senso, su!

La disonestà paga

L'allegoria dell'incendio ci condure al primo risultato della nostra tesi. Assumendo che il termine onesto identifichi colui che non viola mai la legge e si comporta in modo corretto, senza avvantaggiarsi per mezzo di qualche "scorciatoia", ne segue che le persone oneste non esistono. Gettiamo tutti almeno un cucchiano di benzina sul fuoco, almeno una volta nella vita. Al più, per mantenere un'approccio possibilista e concederci un minimo di ottimismo, potremmo afferarmare che

Le persone davvero oneste, ovvero integerrime, sono una ridottissima minoranza

Ma l'allegoria funziona anche per altri aspetti. Noi esseri umani (specialmente noi italiani) non ci limitiamo a lasciar correre le marachelle, ma (inconsapevolmente) diamo pure un premio a chi getta benzina, a patto che non si faccia cogliere in flagrante. Hai svuotato dieci litri di nafta infiammabile senza farti vedere? Una bella promozione. Gettato un ettolitro di cherosene alla chetichella? Un posto in Regione. Evacuato il contenuto dell'autobotte in piena notte? Una poltrona da ministro.

Il meccanismo del "premiare chi getta benzina senza farsi beccare" non è necessariamente una scelta consapevole, né un valore sociale intenzionale. E' piuttosto una sorta di epifenomeno di massa, consueguenza di un atteggiamento di cui non sempre siamo consapevoli.
Che sia voluto o implicito, non ha importanza. In ogni caso, nel momento in cui stabiliamo che una piccola mancanza non è un delitto, stiamo dicendo che gettare una goccia di benzina - di tanto in tanto - è umanamente concesso.
Fin qui potrebbe andare. Il problema è un altro. Se gettando un po' di benzina ne traiamo vantaggio, allora versare carburante sul fuoco diventa il comportamento vincente all'interno della società. Se non emetto una fattura per arrivare a fine mese, campo meglio degli altri. Se non pago il bollo perché sono alla canna del gas, campo meglio degli altri. Se mi faccio raccomandare per l'intervento al menisco, quello che attendo da mesi, campo meglio degli altri. O addirittura più a lungo.

Se chi getta benzina se la passa meglio di chi getta acqua il risultato è ovvio: chi arriva con l'idrante, o addirittura l'autobotte, per scaricare ettolitri di petrolio senza essere colto in fallo, diventa milionario o primo ministro. Se il meccanismo di selezione sociale premia chi alimenta il fuoco anziché chi tenta si spegnerlo, solamente i migliori piromani faranno carriera. Di contro, chi getta volgare acqua, ostinandosi nel perseguire un ideale di integerrima onesta, è condannato a perdere. Arriviamo così al secondo punto cardinale della tesi

La disonestà paga. Conseguentemnte, il comportamento onesto è perdente

Chi più chi meno siamo tutti responsabili dell'esistenza di tale meccanismo. Quando facciamo mettere una buona parola in ospedale, per evitare un'attesa di anni, siamo complici della mala sanità. Quando evitiamo di emettere una fattura, per alleggerire l'iniquo torchio fiscale, gonfiamo il deficit pubblico. Non importa "se non facciamo male a nessuno". Se ci guadagniamo, stiamo incoraggiando il meccanismo che premia la disonestà. E se il meccanismo funziona nel piccolo, allora chi lo reitera su larga scala diventa primo ministro.

Analisi emotiva

Ma torniamo all'oggetto di nostro interesse: la consapevolezza del sè.
Alla luce di quanto detto sopra è interessante chiedersi perché vogliamo sentirci onesti, quando di fatto nessuno di noi è senza peccato. Perché ci teniamo a guardarci allo specchio e trovarci immacolati, prima di andare a dormire? Cosa alimenta questo bisogno emotivo? In molti casi si tratta di emozioni piuttosto plebee, quali paura, pigrizia e vergogna. E' difficile ammetterlo, e spesso sono necessari anni di introspezione. Per mostrare qualche esempio concreto raccontiamo un aneddoto autobiografico.

Nel 1990, mentre studiavo per diventare ufficiale nel capoluogo toscano, ritrovai una vecchia coppia di zii materni. I due canuti sposi, piuttosto benestanti, mi accolsero come il figlio che non avevano mai avuto. Era una gioia cenare con loro, una volta la settimana, durante la libera uscita. Dopo settimane di rancio e gavetta avevo scordato il sapore della cucina verace, il fascino irresistibile di una torta preparata con amore. Lei era abile ai fornelli quanto lui sulla scacchiera, e la mia mente si dilettava nell'arroccare mentre la pancia godeva del lauto pasto. Finito il corso per ufficiali fui trasferito prima a Pratica di Mare, poi a Piazza Novelli. Mandai agli zii due cartoline, una da Roma, l'altra da Milano. Forse li telefonai una volta o due, non ricordo. Non li avevo frequentati per vent'anni e ne avevo goduto la presenza per soli tre mesi, mi sembrava ipocrita fingere le premure di un figlio adottivo.

I miei genitori mi sgridarono. Gli zii erano ricchi, non avevano eredi e stavano pensando di lasciare tutto a me. Mi consigliarono di telefonarli più spesso, scriverli delle lettere, andare a trovarli di tanto in tanto. Pochi anni dopo lui passò a miglior vita e lei lo seguì a ruota. La loro fortuna passò ai vicini di casa. Avevo scelto di non fare il ruffiano.

Quando penso che avrei potuto diventare ricco a vent'anni, al modesto costo di qualche telefonata, i dilemmi di quel periodo tornano prepotentemente a galla. Stare al telefono mi ha sempre disturbato. Se chiamavo i genitori una volta al mese, come avrei potuto chiamare gli zii tutte le settimane, nella speranza di essere ricordato nel testamento, e poi guardarmi ancora allo specchio? Sarebbe stato contro la mia natura. Non sarebbe stato sincero, né spontaneo.
Non sarebbe stato onesto.

La nostra mente tende spesso a decorare con tratti virtuosi i difetti dell'anima, soprattutto quelli di cui non vogliamo prendere atto. Consideriamo l'episodio degli zii benestanti: l'Io cosciente tende a chiamare "onestà" il rifiuto di telefonare agli zii, ma più probabilmente si trattava di pigrizia o timore di perdere la propria libertà. Oppure della semplice ribellione post-adolescenziale di un giovanotto immaturo, o della paura di impegnarsi invano, senza la garanzia di ricevere l'agognata eredità. Fatto sta che preferiamo raccontarci favole e sentirci virtuosi, piuttosto che ammettere i veri motivi delle nostre scelte.

Per convincervi della nostra buona fede, e di come tale atteggiamento riguardi la maggioranza (se non la totalità) degli esseri umani, vediamo un altro breve episodio autobiografico.

Nel 2008, l'anno prima che mio padre migrasse versi i campi elisi, frequentavo la SISS di Bergamo per ottenere l'abilitazione come docente. Ormai prossimo alla quarantina non ero più un ragazzino e credevo di conoscermi, ma ero in errore. Per una serie di congiure familiari mi ritrovai a metà degli studi senza un soldo in banca. Nonostante i prestiti monetari degli amici la barca affondava giorno dopo giorno, così dovetti cercarmi un lavoro. Mancavano pochi mesi alla fine del corso, ero lì lì per ottenere l'abilitazione, ma c'era un inghippo: la frequenza obbligatoria. Andando a lavorare, per mantenere moglie e figlia, sarei risultato assente, perdendo il diritto a sostenere gli esami. I compagni di corso, nella loro ingenua gentilezza, si offrirono per firmare la mia presenza. Qualcuno paventò addirittura la possibilità di passarmi delle tesine già fatte, quelle che gli altri copiavano da internet, facendola sempre franca. Apparentemente era tutto sistemato: sarei risultato presente e avrei dato gli esami, pur lavorando. Ma c'era un piccolo problema: la mia stupida, maledetta, coscienza. Come potevo accettare che qualcuno compisse un atto illecito, firmando al posto mio? Come potevo presentarmi all'esame con una tesi non mia? Mi ritenevo una persona onesta. Quindi niente firme false, niente tesine copiate e niente abilitazione. Due anni di sacrifici e migliaia di euro buttati nel gabinetto, solo per arrogarmi il diritto di scrivere la parola "Onesto" sulla targhetta dello sciacquone.

Jean Piaget

Secondo Piaget l'intelligenza è la capacità di adattarsi all'ambiente circostante. L'acutezza della definizione sta nel termine adattarsi, che non significa né adeguarsi, ovvero aderire in toto alle regole del gioco, né ribellarsi, cioè abbandonare la partita. Da questo punto di vista la scelta di buttare alle ortiche due anni di studio per non falsificare le firme della presenza è un eccellente esempio di stupidità. Un modo di adeguarsi avrebbe potuto essere, ad esempio, l'indebitarsi per finire gli studi rispettandone i cavilli legali, compresa la presenza obbligatoria: ma questo sarebbe stato comunque un comportamento piagetiano di bassa intelligenza. Un comportamento più intelligente sarebbe stato l'adattarsi, cioè aggiustare i propri schemi mentali, ad esempio accettando il compromesso delle firme false. La ribellione senza compromessi è quasi sempre l'opzione più stupida.

Siamo così giunti al terzo punto cardinale della tesi:

L'onestà è (purtroppo) un comportamento a bassa intelligenza

Quelle firme false sarebbero state poche gocce di benzina gettate sulle fiamme. Non avrebbero fatto male a nessuno, o almeno così se la racconta l'italiano medio, dimostrando una discreta intelligenza (secondo Piaget). Lo stupido non ci riesce. Trattiene persino la più modesta delle flautolenze per timore che l'incendio si nutra dei suoi gas intestinali. Eppure, anche se incapace di adattarsi, lo stupido può almeno divenire consapevole della propria situazione, ovvero smettere di definirsi onesto.

Sottolineiamo questo aspetto: anche se un certo comportamento può essere definito onesto, dal punto di vista esteriore, spesso non lo sono le motivazioni interiori. Per capire chi siamo dobbiamo andare oltre lo specchio, aprire l'armadio e spogliare gli scheletri, specialmente quelli agghindati di abiti virtuosi. Altrimenti rischiamo di confondere l'abito con il monaco.

Il modello di Pirsig

Robert Pirsig

Un'altra spiegazione del fenomeno potrebbe venire dalla metafisica di Pirsig, che distingue tra valori intellettuali (i principi) e valori sociali (i comportamenti). Da questo punto di vista l'onestà sarebbe un valore intellettuale ma non un valore sociale. Gli onesti, quelli che presentano un comportamento diverso dalla maggioranza, rappresentano la spinta dinamica evolutiva del sistema società. Secondo Pirsig tali elementi dinamici provocano un cambiamento nella società indipendentemente dalle motivazioni del loro comportamento. In altre parole non è necessario essere volutamente idealisti, rivoluzionari o onesti. L'onestà può semplicemente essere l'effetto (la manifestazione esteriore) di cause interiori, che possono essere le più svariate: paura, vergogna, pigrizia o il desiderio egoista di distinguersi dal branco.
In ogni caso, siccome il comportamento onesto (in senso integrale) è operato solo da una spaurita minoranza della popolazione, questo piccolo gruppo di integerrimi produce una spinta dinamica sulla società che va a contrastare la spinta statica prodotta dalla maggioranza (coloro che si adeguano, o adattano, ai costumi sociali).

L'onestà sarebbe quindi un comportamento perdente per definizione, proprio perché di nicchia. Chi lo pratica subisce la spinta statica dei conservatori e viene penalizzato anziché premiato. Eppure, al tempo stesso, il "sacrificio" di queste persone è la forza che tende a far evolvere la società, seppur molto lentamente (ovvero nel corso dei secoli). E' per questo motivo che spesso sono proprio gli stupidi a cambiare il mondo.

Nietzsche

Probabilmente anche Nietzche sarebbe d'accordo. Nella sua opera Al di là del bene e del Male il filosofo tedesco distingue tra la morale dei signori e la morale degli schiavi.
I primi chiamano "buoni" gli individui fieri, nobili e coraggiosi. I secondi definiscono "buoni" gli umili, gli onesti e i compassionevoli. Il nobile si reputa "bravo" perché domina lo schiavo, mentre quest'ultimo si sente "bravo" perché rispetta le regole. Ancora una volta la virtù è solo un abito elegante, che indossiamo per adornare le brutture dell'anima.

Il modello di Pirsig spiega molte (apparenti) contraddizioni della nostra società. Somigliamo più ai nostri cugini canidi che ai lontani parenti felini, e probabilmente per questo abbiamo bisogno di sentirci apprezzati dal branco. Nel momento in cui di dichiariamo onesti, almeno a parole, ci riconosciamo nel valore intellettuale (il principio, l'ideale) approvato dalla maggior parte delle persone, e in questo modo ci sentiamo accettati dal gruppo. Al tempo stesso, quando svuotiamo bicchierini di rum sul fuoco perché lo fanno tutti, apparteniamo al branco anche dal punto di vista dei valori sociali (il comportamento, la prassi). Ecco spiegata la tipica contraddizione della natura umana: ci presentiamo come onesti per essere accettati dal branco, ma rubiamo come gli altri per non restare indietro.

Conclusioni

Da quanto visto sopra, tenendo conto sia dei modelli di Piaget, Pirsig e Nietzche, nella maggioranza dei casi la presunta onestà è in realtà un modo per descrivere una certa stupidità di base. Sottolineiamo che si tratta di una stupidità "benigna", in quanto essa contribuisce a migliorare la società, purtroppo a danno dell'individuo che la mette in pratica. Inoltre parliamo di stupidità esclusivamente dal punto di vista sociale, inteso come una delle tante forme di intelligenza nel modello delle intelligenze multiple (H. Gardner).

La seconda conclusione, forse la più scomoda, è che l'onestà sarebbe solo un effetto di motivazioni molto meno ammirevoli. Dietro la facciata dell'onestà (come vogliamo raccontarcela) si celano spesso difetti o limiti della personalità, come ad esempio la pigrizia o la paura di essere colti in flagrante.

Disonesto in manette

Se non siete convinti, se pensate ancora che l'onestà sia una scelta nobile, anziché un ripiego inzuppato di miele e paura, pensate a come ci viene insegnata. Negli anni ottanta c'era una pubblicità affissa sugli autobus che avrebbe dovuto motivare i viaggiatori ad acquistare il biglietto. Invece di far leva sulla correttezza ideologica, sui motivi per cui andrebbero sostenute le spese del trasporto pubblico, sul manifesto c'era un omino con centinaia di occhi puntati addosso, con sotto scritto: "Viaggiare senza biglietto: una piccola vergogna". Pensate agli incensurati che vengono arrestati e si coprono il volto mentre si tuffano nella volante dipinta di blu. Cosa ci spaventa di più, quando veniamo colti in flagrante? L'ammenda da versare, l'onta sulla coscienza o la foto in prima pagina?

Diventare consapevoli del sè dovrebbe indurci a smettere di vantarci della nostra presunta onestà, perché dietro questa posizione si nascondono almeno due scomode verità. La prima è che lo facciamo per paura, e non per qualche nobile ragione. La seconda è che l'onestà ha il suo prezzo, ci trasforma in martiri, condannandoci a una vita di stenti e sacrifici.

Guardatevi nell'anima, setacciate il vostro cuore e cercate la risposta più sincera, per quanto dolorosa, alla seguente domanda: perché vi reputate brave persone? Perché ci tenete tanto ad appuntarvi la spilletta di onesto cittadino sulla giacca, quando uscite di casa? Qual'è la prima emozione che vi scoppia in petto, se immaginate di essere scoperti con le mani nel sacco? Forse si tratta di paura o vergogna, anziché dolore e dispiacere1.

E' sempre doloroso destarsi, aprire gli occhi e guardare in faccia la realtà. E' la paura a tenerci incollata la maschera della persona per bene sul volto, non la virtù. Se non vogliamo ammettere di non essere onesti fino in fondo, o di esserlo per i motivi sbagliati, forse siamo talmente codardi da aver paura persino di questa verità.


[1] Se invece provate rabbia, forse siete disonesti e orgogliosi di esserlo.